Stiamo facendo tutto il possibile per risparmiare ai cristiani iracheni sofferenze e umiliazioni?
di Giorgio Bernardelli
Ci sono le parole altisonanti sulla coalizione internazionale che vuole «sradicare» l’Isis. E c’è la realtà che loro si trovano ogni mattina davanti agli occhi: un inverno che si avvicina nelle tendopoli del Kurdistan. Con sempre meno speranze di poter tornare sul serio in quelle che fino a poche settimane fa erano le proprie case.
Se c’è qualcuno che oggi è decisamente difficile abbindolarecon un po’ di retorica sono i cristiani iracheni fuggiti dalla Piana di Ninive. L’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Yousef Thomas Mirkis, l’altra sera ha portato la loro voce durante una serata organizzata a Parigi da Fraternité en Irak, una delle Ong più attive Oltralpe per il sostegno ai profughi scappati a causa delle violenze dell’Isis. Il presule ha raccontato le proporzioni dell’emergenza umanitaria che stanno vivendo: «Nel Kurdistan iracheno i 130 mila cristiani locali stanno accogliendo nelle proprie strutture altri 130 mila cristiani fuggiti dalla Piana di Ninive». Più tutti gli altri: l’Onu parla complessivamente di 1,8 milioni di sfollati in Iraq. Parrocchie, scuole, strutture di accoglienza stanno facendo tutto quanto possono per dare un’accoglienza dignitosa. Ma ciò nonostante molta gente dorme tuttora in rifugi di fortuna. E tra al massimo un mese su queste montagne arriverà l’inverno, che renderà anche queste condizioni di vita già estreme del tutto insostenibili.
Poi c’è il problema specifico dei ragazzi: «Loro parlano arabo – ha osservato il presule caldeo – come fanno ad andare nelle scuole dove gli insegnanti fanno lezione in lingua curda?». E la comunità internazionale? Proprio in questi giorni in Francia sono arrivati 150 esuli iracheni – cristiani e yezidi – accolti all’aeroporto Charles de Gaulle dal ministro degli Esteri Laurent Fabius in persona. Ma mons. Mirkis ha invitato a non lasciarsi ingannare da immagini propagandistiche: «Dall’inizio della crisi a oggi la Francia ha concesso in tutto 201 visti – ha commentato -. Mi piacerebbe ci spiegassero che cosa hanno intenzione di fare per le altre centinaia di migliaia di iracheni che restano in Kurdistan».
Fanno l’impossibile le comunità cristiane localiper alleviare le sofferenze degli esuli: grazie alla catena di solidarietà sostenuta dai cristiani di tutto il mondo provvedono a nutrire questa gente, a procurare i medicinali, a organizzare attività con i più piccoli. «I nostri non sono campi ma centri», ha tenuto a precisare qualche giorno fa al sito Baghdadhope padre Douglas Bazi, sacerdote caldeo che nella sua parrocchia di Ankawa – il sobborgo cristiano di Erbil – ospita tuttora sotto le tende circa 1650 persone. «Parole come ‘centro’ e ‘rifugiato’ – spiega – fanno pensare a stranieri, mentre invece questa è la nostra gente, la nostra famiglia». Ma proprio perché questa è la sua famiglia padre Douglas è estremamente realista. Sa bene che ciò che sta facendo non può bastare. E non se la sente di chiudere gli occhi su un futuro che – per chi è scappato dalla Piana di Ninive – oggi non c’è. Perché con i bombardamenti aerei da soli è impensabile che Mosul sia tolta dalle mani dell’Isis. E un’altra strategia all’orizzonte non si vede.
«Tutti ci auguriamo che queste persone possano tornare alle loro case, al loro lavoro. Ma ci sono ancora quelle case? Ci sono ancora quei lavori per loro? – si è chiesto amaramente in quell’intervista -. Se consideriamo gli ultimi avvenimenti con la ragione e non con il cuore come possiamo pretendere che queste persone si fidino a tornarvi? Nessuno le ha difese dallo Stato Islamico. Possiamo rassicurali che un domani non sarà lo stesso? Perché chiedo che l’Occidente apra i confini a chi non ce la fa più a vivere in questa situazione? Perché penso che se ai cristiani non verrà data questa opportunità potranno essere uccisi, o sopravvivere ma pagando la tassa che la legge islamica impone ai non musulmani.