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Trasparenza o business? Germania e Google ai ferri corti

Google Called on to Be Neutral in Pregnancy Center Ad Policy Brion V – it

Brion V

Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 17/09/14

La richiesta tedesca di rendere pubblico il meccanismo del motore di ricerca è l’ultima, e disperata, sfida di uno Stato europeo all’intangibilità dell’online

Se la storia delle nazioni ha fatto germogliare culture economiche diverse, perfino opposte, nelle varie aree del mondo, la tecnologia transnazionale della rete ha assestato un colpo ferale alle barriere che hanno identificato, per secoli, tali culture. La Germania di oggi incarna l’anima più tradizionalmente europea nel momento in cui il suo governo, nella persona del ministro della Giustizia federale Heiko Maas, fa sentire la sua voce per pretendere che Google renda pubblico l’algoritmo che è alla base del funzionamento del suo motore di ricerca.

L’obiettivo evidente è quello di rendere più trasparente ed accessibile la cognizione del funzionamento di un colosso tecnologico che di fatto, secondo Berlino, ha costruito una posizione di monopolio gestendo in modo indipendente da qualunque controllo la distribuzione di informazioni e quindi, in definitiva, l’organizzazione della conoscenza per individui e per comunità, soprattutto di ricercatori (cfr. articolo di Repubblica.it del 16 settembre). Un obiettivo utopistico, questo, secondo Gigio Rancilio, giornalista di Avvenire esperto di nuove tecnologie, che Aleteia ha intervistato.

Che ne pensa di questa iniziativa del Ministro federale?

Rancilio: Penso che sia una fantastica mossa demagogica, perché non tiene conto della realtà: nessuno ti dà la ricetta con cui ha fatto il maggior numero di business al mondo negli ultimi vent’anni. È come chiedere alla Coca Cola all’improvviso di tirare fuori la ricetta della sua bevanda. Quella ricetta, cioè l’algoritmo di Google, che peraltro continua a cambiare – dovrebbe farlo di nuovo in queste settimane– è ciò che fa la differenza tra Google e tutte le altre aziende che mappano e traggono dati dal web. Il valore di Google è il suo algoritmo, attraverso il quale produce quei dati che diventano soldi. Non vedo un motivo per cui Google dovrebbe rivelare una cosa di questo genere. Perché lo dice uno Stato? Perché lo dice un gruppo di Stati? Non prendiamoci in giro, sappiamo benissimo che il potere di colossi come Google è infinitamente superiore, al momento, al potere degli Stati, soprattutto in questo campo. Finché gli Stati chiedono a Google di rispettare alcuni paletti della privacy o di cancellare alcune storture dal proprio server, ce la possono fare, ma quando si chiede di rendere pubblico quello che è di fatto un brevetto, come si fa a sperare di riuscire? Qui siamo più vicini al gioco che alla realtà.

Chi ha interesse di limitare il potere di Google? 

Rancilio: Ci sono dei movimenti che vanno in quella direzione, ma non sono movimenti di massa. Faccio un esempio che tocca la vita di tutti. Tutti noi diciamo che non vogliamo che la nostra privacy sia invasa, e tutti noi regaliamo al web e non soltanto al web tutto quel sistema di raccolta di dati che va dall’uso delle fidelity card all’uso del cosiddetto portafoglio elettronico. Sono una montagna di dati. È il vecchio discorso che in tempi non sospetti è stato raccontato dal film Nemico Pubblico: tu puoi anche pensare di non avere nulla da nascondere, ma quando qualcuno comincia ad usare i dati che tu hai lasciato e le tue connessioni elettroniche contro di te, ti accorgi quanto male ti possono fare. Noi non vogliamo che la nostra privacy sia invasa, ma accettiamo per esempio le clausole di privacy e i termini per esempio di Apple Store o di iTunes, di Facebook oTwitter senza leggerle, e di fatto regaliamo pezzi enormi della nostra vita a qualcuno. Il giorno che questo qualcuno usa questi dati contro di noi per farci un danno o semplicemente per diventare ricco improvvisamente ci accorgiamo che esiste la privacy. A livello di singoli, pensiamo bene ma poi agiamo male: per pigrizia, per uso, per dimenticanza, per superficialità, ma di fatto non facciamo nulla per difendere la privacy come un valore. 

Sullo stesso tema abbiamo chiesto una riflessione anche al Prof. Franco Pizzetti, giurista e ex presidente dell’Autorità Garante per la Privacy.

Questa mossa del governo tedesco nasce da ragioni condivisibili?

Pizzetti: Bisognerebbe leggere bene quello che Maas ha detto, e sapere a chi lo ha detto: se a Google, se è una posizione ufficiale, se ha parlato a nome della Germania o a nome di un ambito di utenti più vasto. Qui sono mescolate insieme cose molto diverse tra loro, per esempio la questione del diritto d’autore non ha nulla a che vedere con il motore di ricerca, che si limita ad individuare dei e poi dipende dal regime di ogni link se è accessibile a tutti, se è scaricabile o meno. Il problema dei dati che il motore di ricerca diffonde è noto: c’è stata anche una sentenza della Corte Europea sul diritto a chiedere la cancellazione di alcuni dati in alcune circostanze. Che l’algoritmo di Google interessi è notissimo, se ne discute da quando Google esiste, perché a seconda di come funziona questa modalità tecnica di indicizzazione si pilotano anche le ricerche degli utenti, si mettono le notizie in un certo ordine, si diffonde con maggiore o minore efficacia una notizia. Normalmente una persona legge una videata, al massimo due o tre, se la notizia non nei primi 50 link la notizia è difficilmente reperibile. Questo rientra nel dialogo tra il motore di ricerca e il ricercatore. si possono ottenere informazioni usando parole chiave diverse: ovviamente il fatto di non sapere la logica con cui Google organizza le informazioni è un limite per il ricercatore, perché non sapendo la logica questi si muove alla cieca. Ma Google si è sempre rifiutato di fornire la chiave, e non si capisce in base a quale norma, anche europea, il ministro della Giustizia vorrebbe avere questa informazione, se è un problema di concorrenza, se di affidabilità o di controllabilità del motore di ricerca. 

Che cosa nasconde questa richiesta della Germania?

Pizzetti: Questa è una dichiarazione esplicita di antagonismo col mondo americano. È chiaro che la Germania dice: io non voglio che gli utenti tedeschi, e un domani gli utenti europei, siano costretti a far dipendere la loro capacità di ricerca da un motore di ricerca che occupa il 95% del mercato e di cui non è chiara la logica operativa. Il problema è che se la Germania o l’Europa non sono in grado di mettere in campo un motore di ricerca antagonistico noi passiamo da un regime di mercato a uno protezionistico. Quest’ultimo, volendo appunto proteggere il mercato interno, presenta sempre il rischio d’impedire al cittadino l’accesso a delle risorse: se a un ricercatore s’impedisce di accedere a Google gli si fa un danno. Il tema è delicato. Come autorità lo Stato può imporsi per la tutela dei suoi cittadini: la Cina lo fa, e noi diciamo che è uno stato autoritario. I cittadini magari invece di essere “tutelati” preferirebbero avere le stessa possibilità di ricerca che ha il collega americano attraverso Google. Da tempo la Germania, soprattutto dopo il caso Snowden, considera strategico per la sicurezza dello Stato il problema del controllo dei dati come strategico. Che ci sia stato un uso illecito da parte del governo americano sulla raccolta dati è certo, ma questo dovrebbe spingere soprattutto gli utenti ad essere più cauti. Considero un fatto positivo che finalmente i governi si siano accorti dell’interesse strategico che hanno questi temi, ma non trovo gradevole questa presa di posizione unilaterale da parte del governo tedesco.

Quanto è pericoloso il potere che h
a Google di gerarchizzare le informazioni e di fatto la conoscenza?

Pizzetti: Ogni istituzione fa questo, a cominciare da una scuola o da una biblioteca. Una biblioteca pubblica crea una selezione di libri o una raccolta di giornali e decide che cosa rendere accessibile ai suoi cittadini. Se come direttore rinuncio ad un abbonamento e ne apro un altro oriento inevitabilmente la ricerca in una certa misura. E viceversa c’è sempre un limite che riguarda la mia possibilità di scelta: l’idea della conoscenza resa accessibile a tutti è una frase vuota di significato. Anche Google può mettere a disposizione la conoscenza, ma non può certo assicurarsi che ci si arrivi, che si trovino i canali giusti per trovare ciò che si cerca. Anche se uno ne conoscesse l’algoritmo, a che servirebbe? Nel Nome della rosa le regole della biblioteca più o meno si conoscevano, ma poi il libro che tutti cercavano era nascosto. Il problema vero è che il motore di ricerca mi droga un po’, perché mi fa arrivare un’informazione prima di un’altra. Quindi se io sono un ricercatore frettoloso mi becco quello che mi viene dato. La stessa cosa succede se vedo un libro che è stato messo in vetrina, mentre non vedo uno messo in fondo. Sulla rete funziona allo stesso modo: di nuovo ci sono la dimensione della platea che può accedere e le modalità non note a questa platea di organizzazione di informazione. Se quando entri in un negozio sai bene quali siano le ragioni per cui sei stato attratto e ne sei consapevole, sulla rete questo modo di pilotare il gusto o le conoscenze ci sono meno note.

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