L'antropologia aristotelica ci aiuta a comprendere come la cultura svolga un ruolo, ma positivo, di sviluppo del progetto della persona
di Roberto Marchesini
L’ideologia di genere ha avuto, tra i pochi, il merito di focalizzare l’attenzione di alcuni osservatori sulla figura del padre e della madre, sul ruolo paterno e materno, e sulla loro importanza nella formazione dell’identità di genere. È importante, si osserva, che ci siano entrambi i genitori, il padre e la madre; ma è ancora più importante che, nei confronti del bambino, siano presenti il ruolo paterno e materno, al di là di chi li riveste: non è necessario che il ruolo paterno sia esercitato dal padre e quello materno dalla madre; un ruolo paterno può essere esercitato anche da altri uomini (uno zio, un nonno, un prete…) e addirittura da una donna (dalla madre, ad esempio nel caso della vedovanza). Questa affermazione è di solito corroborata da casi in cui un bambino orfano di padre è cresciuto senza alcun problema di identità di genere; oppure di ottime famiglie nelle quali il ruolo tradizionalmente paterno è stato svolto dalla madre e viceversa.
Personalmente, credo che la questione sia semplicemente una riproposizione del dibattito sul genere. Si discute, infatti, del sesso dei genitori (padre e madre) e del loro ruolo di genere (ruolo paterno o materno). L’ideologia di genere sostiene che non esista alcun legame tra sesso e genere; e che il genere, essendo una pura costruzione sociale, deve (per qualche motivo mai chiarito) essere decostruito. Nel nostro caso abbiamo padri (di sesso maschile) che cambiano i pannolini (ruolo di genere materno) e madri (di sesso femminile) che hanno un ruolo normativo (ruolo di genere paterno); bambini che crescono senza qualcuno che svolga un ruolo paterno (necessario solo, dunque, per convenzione sociale); e casi in cui i ruoli genitoriali di genere sono state stravolte e i bambini non ne hanno avuto alcun danno (e che dovrebbero dimostrare come sia possibile decostruire tali ruoli). Proviamo dunque ad affrontare le domande poste dall’ideologia di genere, per poi applicarle alla relazione tra sesso dei genitori e i loro ruoli genitoriali di genere.
Molti ritengono che le questioni relative al genere possano essere affrontate dal punto di vista scientifico. È senz’altro vero che la scienza (cioè l’utilizzo della misurazione come metodo di conoscenza) è un valido strumento per conoscere la realtà, ma non tutta la realtà può essere misurata (quindi conosciuta attraverso la scienza): l’uomo, ad esempio, nella sua profonda identità, non può essere misurato. Lo strumento che fino alla metà dell’Ottocento (cioè fino al Positivismo) è stato utilizzato con successo per conoscere l’uomo è la filosofia, in particolare l’antropologia. L’antropologia può aiutarci a dipanare le questioni poste dall’ideologia di genere? Personalmente credo di sì; credo, in particolare, che alcuni strumenti antropologici della filosofia aristotelico-tomista possano essere particolarmente utili per affrontare tali interrogativi. Nel IX libro della Metafisica, Aristotele sostiene che il movimento, il divenire, il mutamento consiste nel passaggio dallo stato di “potenza” a quello di “atto”. La potenza è la capacità di un ente di essere ciò che ancora non è; l’atto è, invece, la realizzazione di ciò che precedentemente era solamente in potenza. La “natura” è il principio, insito negli enti, che guida il divenire dallo stato di potenza a quello di atto. Il termine “natura”, dunque, non indica semplicemente ciò che esiste, la realtà; né può indicare generalmente ciò che fanno gli animali o i vegetali, semplicemente perché ogni specie ha una propria natura, ossia un proprio progetto, diverso da quello di altre specie. In termini correnti potremmo definire la natura come il “progetto” che guida lo sviluppo di ciò che esiste, la sua realizzazione.