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La guerra contro l’ISIS: cattivi cristiani contro cattivi musulmani?

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Tom Hoopes - pubblicato il 16/09/14

Bisogna valutare la critica che ogni parte fa dell'altra
Ditemi a cosa pensate si riferisca la frase seguente, e vi dirò se vivete in un Paese musulmano del XXI secolo o in un Paese a guida cristiana dello stesso periodo:

“Spaventatevi: una Nazione ama la violenza e i suoi leader professano tutti la stessa religione e sono convinti che il mondo intero dovrebbe credere e comportarsi come loro, e tollerano perfino l’uccisione di bambini per raggiungere i propri scopi”.

Se dite “Queste parole si riferiscono sicuramente all’
ISIS, con la sua volontà di stabilire un duro sistema di shari’a in tutto il mondo”, vivete in una Nazione occidentale guidata da cristiani – forse gli Stati Uniti, o la Germania, o il Brasile.

Se dite invece “Queste parole si riferiscono sicuramente all’
America, i cui media promuovono violenza e immoralità e il cui denaro diffonde l’aborto nel mondo”, vivete in una Nazione musulmana – forse il Pakistan, o l’Indonesia, o la Sierra Leone.

Entrambi hanno un punto di vista – ed entrambi sbagliano.

Mentre ci si rivolge nuovamente verso l’
Iraq, è importante valutare la critica che ogni parte fa dell’altra.

In primo luogo, l’ISIS. Nelle sue considerazioni di mercoledì 10, il Presidente
Obama ha affermato che “l’ISIS non è ‘islamico’”. Ciò significa probabilmente esagerare la questione, ma la natura non religiosa del terrorismo jihadista è stata piuttosto chiara da quando abbiamo sentito per la prima volta i modi ripugnanti in cui i dirottatori dell’11 settembre hanno trascorso i loro ultimi giorni sulla terra.

Come ha sottolineato Mehdi Hasan sul “New Statesman” qualche settimana fa, “nel 2008 una nota riservata sulla radicalizzazione, preparata dall’unità scientifica comportamentale del Security Service, trapelò a ‘the Guardian’. La nota rivelava che, ‘lungi dall’essere fanatici religiosi, molti di coloro che sono coinvolti nel terrorismo non praticano la propria fede in modo regolare.

Molti mancano di alfabetizzazione religiosa e potrebbero essere considerati novizi religiosi’. Gli analisti concludevano che ‘un’identità religiosa ben costruita cozza contro la radicalizzazione violenta’, osservava il quotidiano”.

Se non è la fede a motivare gli jihadisti, allora cos’è?

Hasan ha fatto un elenco: “Oltraggio morale, disaffezione, pressione dei propri pari, ricerca di una nuova identità, di un senso di appartenenza e di scopo”. Sono, stranamente, gli stessi motivi attribuiti spesso ai killer del liceo di Columbine Dylan Klebold e Eric Harris (che, stranamente, immaginavano anche un attacco sullo stile di quelli dell’11 settembre).

L’ISIS, però, è chiaramente entusiasta dell’islam, giusto? Andrew Salzmann, su “Small Wars Journal”, descrive come le narrative storiche incombano ampiamente sulla mente dei membri dell’ISIS e diventino una cornice di riferimento per loro – non perché la loro umiltà è grande di fronte al potente Allah, ma perché l’immaginario islamico nutre il loro potente ego.

“L’ISIS ha bisogno di subire una sconfitta umiliante”, scrive Salzmann.

Nel frattempo, a questi musulmani secolarizzati con un’immaginazione storica si oppongono cristiani secolarizzati con un’immaginazione nichilista.

San Giovanni Paolo II è stato profetico nel suo messaggio per la Giornata della Pace 2001, nel quale ha scritto che l’imperialismo culturale occidentale metteva il mondo a rischio di una guerra.

L’ateismo pratico e l’individualismo radicale dell’Occidente stavano travolgendo le culture di tutto il mondo, affermava.

“Si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, sostenuto da potenti campagne mass-mediali, tese a veicolare stili di vita, progetti sociali ed economici e, in definitiva, una complessiva visione della realtà, che erode dall’interno assetti culturali diversi e civiltà nobilissime.

A motivo della loro spiccata connotazione scientifica e tecnica, i modelli culturali dell’Occidente appaiono fascinosi ed attraenti, ma rivelano, purtroppo, con sempre maggiore evidenza, un progressivo impoverimento umanistico, spirituale e morale” (n. 9).

Stiamo esportando una “cultura di morte”, diceva, intendendo tutto, dall’aborto e la contraccezione ai film e ai giochi violenti o alla pornografia.

La battaglia nella quale siamo impegnati è quindi una questione di musulmani megalomani contro megalomani cristiani tiepidi?

Non dovremmo quindi sapere da che parte schierarci? Sicuramente no.

Dovremmo schierarci dalla parte dell’America, per tre ragioni:

1. Le nostre radici.

L’occidente è radicato nei valori giudaico-cristiani, che sono vitali e reali.

L’America ha tollerato la schiavitù per anni, ma il diritto alla libertà nella nostra Dichiarazione d’Indipendenza ha reso l’ipocrisia intollerabile.

Una cultura di morte si è metastatizzata negli ultimi 100 anni, ma il diritto alla vita si ritrova nella stessa Dichiarazione, e noi lo ribadiamo con vigore, consultazione dopo consultazione, Stato per Stato.

2. I nostri obiettivi.


Nella battaglia contro l’ISIS, il nostro obiettivo è difendere e assicurare la comunità delle Nazioni.

3. Le nostre virtù.

Il ruolo dell’America nel mondo non può essere semplicemente riassunto dai nostri peccati.

L’America ha fatto anche grandi cose: la nostra medicina guarisce i malati, il nostro cibo nutre gli affamati e la nostra libertà economica ha fatto uscire migliaia di persone dalla povertà.

Non c’è alcuna “equivalenza morale” tra l’ISIS e l’America, ma non ci sbagliamo: i secolaristi non hanno risorse per combattere gli eccessi del Medio Oriente o dell’Occidente.

Non convinceremo mai le Nazioni musulmane che Dio non esiste – perché Dio esiste.

Non le convinceremo mai che non conoscono la volontà di Dio se noi non conosciamo nemmeno Dio.

Perché dovrebbero ascoltarci?

Il secolarismo non ci servirà neanche in Occidente.

Se la verità è relativa, allora chiunque abbia la forza maggiore vincerà ogni argomentazione.

E non saranno necessariamente i buoni.

Ecco perché, nel momento in cui andiamo ancora una volta a combattere oltremare, la
Nuova Evangelizzazione diventa più urgente che mai.

Tom Hoopes
è writer-in-residence presso il Benedictine College.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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