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L’amicizia e la distanza

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don Fabio Bartoli - Aleteia - pubblicato il 15/09/14

Solo con l'amore si riducono le distanze che ci separano dall'altro, distanze e differenze che non si annullano, ma si compongono

Dio crea distinguendo, separando, mettendo in un certo modo una distanza tra le cose: la luce e le tenebre, la terra e il mare… Le cose cominciano ad esistere quando escono dal caos e quanto più una cosa è chiara e definita, tanto più esiste.

Molte conseguenze derivano da questo principio: la prima è che tutto ciò che esiste ha un suo doppio speculare. Le cose vanno a due a due, tutto ciò che esiste proviene da una coppia originaria e se le cose esistono nella separazione è anche vero che continuamente desiderano tornare a quella unità, come il sole e la luna che eternamente si inseguono nel cielo, come Adamo ed Eva che una irresistibile forza spingerà sempre uno verso l’altro, in barba a qualsivoglia guerra dei sessi.

Ma se la distanza è creata da Dio allora vuol dire che è buona.

Già, perché senza questa distanza, senza la differenza che ci caratterizza come individui, non ci sarebbe identità. Né libertà.

Il bambino scopre se stesso distinguendosi dalla madre, l’amore è sano e vero quando esce dallo stato fusionale tipico dell’adolescenza.

Solo gli individui sono liberi, perché padroni di sé. Senza distanze tra noi vivremmo in un melànge indistinto che abolirebbe ogni libertà personale. Solitudine e responsabilità sono dunque il prezzo da pagare per avere identità e libertà.

Così agiscono in noi due forze contrastanti: un’aspirazione all’identità che crea il desiderio di distinguermi, cioè di separarmi, e un’aspirazione all’unità che pone il desiderio di avvicinarmi e quindi eliminare le differenze.

Tra le distanze che ci definiscono ce ne sono alcune poste da noi e altre create direttamente da Dio, su cui non possiamo in effetti far nulla. Potremo chiamare queste ultime le nostre dimensioni esistenziali.

Sono principi assoluti, quindi dovrebbero essere elementari ed evidenti, ma, come vedremo, spesso invece sono dimenticati o negati.

Il primo principio di esistenza è: io sono qui. Il che significa ovviamente che non sono lì. Questo crea una distanza e una separazione tra quelli-di-qui e quelli-di-lì. Se io sono qui e tu sei lì significa che io non sono te e tu non sei me, che i nostri interessi, per quanto possano convergere su alcune cose, saranno sempre differenti.

Il secondo principio di esistenza è: io sono adesso. Il che significa che non sono domani, né vent’anni fa. Ognuno di noi è il frutto di una storia ed ogni storia in base al primo principio è differente. Possiamo far finta di non vederla, ma la nostra storia ci definisce e ci condiziona.

Il terzo principio di esistenza è: io sono un corpo. Non sono cioè una pura volontà, un puro spirito, soggetto solo alla propria scelta e alla propria libertà, ma vivo in un complesso biospirituale che mi precede e mi determina: sono maschio, sono alto, sono robusto eccetera (questo vale per chi scrive ovviamente, ma ognuno ha le sue proprie determinazioni definite dal suo corpo).

Queste tre dimensioni ci identificano nella natura, nel tempo e nello spazio.

C’è poi una quarta distanza che mi definisce ed è in un certo senso trasversale, od ortogonale, alle altre tre e le comprende. Si potrebbe esprimere nella semplice formula: io non sono Dio. È cioè la distanza stabilita tra creatura e Creatore, che fa di noi inevitabilmente degli esseri dipendenti. Noi non ci diamo l’esistenza da soli, dunque siamo destinati ad esistere nella mendicanza dell’essere, dunque siamo felici solo se obbediamo.

Spezzare la radice da cui proveniamo significa condannarsi ad una vita senza ragione né senso.

Tre coordinate più una che ci costringono ad oscillare continuamente tra il bisogno di affermare noi stessi e la nostra individualità e il desiderio di comunione ed amore. Potrebbe essere suggestivo provare a scrivere una storia della cultura a partire dall’oscillazione tra i due estremi di questo pendolo, in ogni modo questo nostro tempo mi sembra caratterizzato da due eccessi: stiamo appena uscendo da una fase durata decenni di individualismo esasperato e competitivo a cui per reazione ora si contrappone un tentativo altrettanto estremistico di abolire ogni separazione.

Sembra quasi che l’uomo di oggi nel tentativo velleitario di ricolmare la solitudine che si è autoinflitto, abbia intrapreso una battaglia senza speranza contro la realtà stessa, arrivando fino a cercare di negare appunto le quattro distanze fondamentali che ci identificano.

Come spiegare altrimenti il clamoroso successo dei social network, che hanno trasformato la Rete da strumento di lavoro a divertimento di massa? L’amicizia è ben altra cosa dall’avere un contatto su Facebook, eppure lo strumento virtuale abolisce il primo principio dell’identità, quello del qui, consentendoci di legarci a persone che sono ovunque nel mondo, cancellando la distanza con un mero click.

Purtroppo però per ottenere questo risultato deve anche abolire tutto ciò che rende interessante un’amicizia, che inevitabilmente riguarda la fisicità: l’andar a bere una birra insieme, il sudare insieme dietro a un pallone (o qualsiasi cosa preveda il sudare, sudare insieme è un elemento essenziale per l’amicizia maschile) eccetera.

Così per poter dire che quella virtuale è un’amicizia bisogna di fatto svuotare la parola amicizia di ogni senso.

E che dire della distanza legata all’adesso? Le palestre sono piene di cinquantenni che si illudono di essere adolescenti, strizzandosi in pantaloni improponibili o esibendo messe in piega imbarazzanti. È come un modo per negare la propria storia, per dire: non è vero che io ho vissuto, che ho fatto questo, questo e questo… ma il prezzo di questa illusione di eterna giovinezza è l’abolizione di ciò che rende davvero interessante un uomo, ovvero la sua esperienza, le sue cicatrici, tutte cose legate inevitabilmente ala storia.

Anche per il sesso vale lo stesso discorso, il gigantesco tentativo di abolire la differenza tra maschi e femmine a cui stiamo assistendo da circa un secolo è arrivato al suo estremo: la creazione dell’androgino.

E così dopo aver privato l’amore della cosa che lo rende più affascinante e desiderabile, cioè l’avventura meravigliosa e inquietante della fecondità, giungiamo con un colpo da maestro dialettico a chiamare amore un pallido surrogato sterile e infecondo che sarebbe assai più corretto chiamare egoismo di coppia.

La realtà resiste, la realtà non si lascia abolire per decreto, appunto perché c’è la quarta differenza che non può essere abolita e custodisce le altre tre: noi non siamo Dio e quindi non possiamo trasformare l’essere a nostro capriccio. E poiché la realtà resiste, si vendica dei tentativi di manipolarla e ce li ritorce contro in termini di nevrosi e insoddisfazioni.

Che dire dunque? Siamo condannati alla solitudine? La distanza che ci identifica ed identificandoci ci separa è dunque incolmabile? L’aspirazione all’unità che ci portiamo dentro dovrà restare eternamente insoddisfatta?

No, in realtà ci sono due vie per superare questa distanza e costruire una vera unità, liberante e non costrittiva, una naturale ed una soprannaturale.

La via naturale è quella dell’amicizia.

L’amicizia non vuole abolire la distanza, non fa finta che non ci siano differenze, ma se ne accolla il peso in un lavoro necessario a superarle. Questo lavoro non nega la distanza, anzi, implicitamente l’afferma e la riconosce come buona, proprio nello sforzo di colmarla.

La fatica con cui due amici testardamente ricominciano continuamente una discussione nello sforzo di trovare un intesa è un buon esempio di questo: non possono rassegnarsi ad essere divisi, ma neppure vogliono violentarsi a vicenda e quindi limano e affinano continuamente il proprio pensiero nella estenuante ricerca di una verità comune che consenta di salvaguardare l’unità senza sacrificare la libertà e la coscienza di ciascuno.

Si potrebbe dire che la falsa unità nega la distanza, l’amicizia invece la vede e proprio per questo la percorre, rispettando così la verità di ciascuno. L’amicizia è percorrere ogni giorno il cammino necessario a raggiungere l’amico là dove egli è.

La via soprannaturale invece è quella della Grazia, che trova il suo prototipo nella comunione eucaristica.

Quando il mio corpo si unisce al Corpo di Cristo si abolisce ogni distanza tra il mio essere qui-ora-maschio e quello di Gesù e io divento letteralmente parte di Lui, Corpo di Cristo io stesso, realizzando così in modo profetico, come una caparra, ciò che tutti saremo alla fine dei tempi, quando ogni distanza sarà abolita e Cristo definitivamente sarà tutto in tutti.

Questo non riguarda solo il nostro rapporto con Dio, ma anche il nostro rapporto tra noi, infatti nella misura in cui io sono affascinato da Cristo e sedotto da Lui, posso superare ogni differenza che si pone tra noi, come scrive S. Paolo: “non c’è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna”.

Non siamo noi in questo caso ad aver abolito la distanza, ma essa è stata riempita in un attimo non dal nostro lavoro, ma dalla Grazia di un dono immeritato di Dio, perché nell’incontro con lui abbiamo sperimentato un fascino che ha polarizzato tutto il nostro essere facendo di noi “nuove creature” (sempre per usare il linguaggio paolino).

Nei Vangeli troviamo un esempio interessante di questo principio: pensate a Matteo il pubblicano e Simone lo zelota. Probabilmente prima di conoscere Gesù si sarebbero volentieri tagliati la gola a vicenda, tanto più che erano entrambi di Cafarnao, quindi con certezza si conoscevano bene, eppure è tale il fascino che emana dal Maestro che pur di stare con Lui accettano perfino di stare insieme.

E non solo, dopo tre anni di questa epica avventura vissuta insieme impareranno a lavarsi i piedi a vicenda ad amarsi come il Maestro li amava e quindi a potersi dire amici perché Colui che ha detto “Amatevi come io vi amo” ha detto anche “vi chiamo amici”.

L’enorme distanza che li separava è stata ricolmata, in parte certamente anche dal loro lavoro, che però sarebbe rimasto del tutto insufficiente senza l’azione della Grazia.

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