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La donna nel parto: icona della vita cristiana

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Catherine Ruth Pakaluk - pubblicato il 12/09/14

Sacrificarsi per dare alla luce una nuova vita riassume la vita di chiunque segua Cristo

Un po’ prima di quanto ci si aspettava, l’adorabile Kate, duchessa di Cambridge, ha annunciato la sua gravidanza. La ragione per aver dato in fretta la buona notizia è il fatto che le stesse nausee “mattutine” che avevano caratterizzato la sua prima gravidanza l’hanno costretta a cancellare molti impegni previsti nel prossimo futuro.

Mi chiedo se pensi alla gravidanza nello stesso modo in cui lo faccio io. Io penso che sia abbastanza tremenda. Voglio dire che per un po’ è bella – fino al punto in cui capisci (e succede sempre) che non c’è alcun modo magico per far uscire il bambino dal tuo grembo, che la nascita verginale non è nemmeno remotamente possibile. O passi per il travaglio e il parto o qualcuno ti aprirà la pancia.

In Occidente siamo perlopiù anestetizzati nei confronti di queste realtà, in modo piuttosto letterale. E probabilmente è una cosa positiva, perché sono piuttosto certa del fatto che avremmo aspettato molto, molto a lungo prima di avere un secondo figlio se non mi fosse stato promesso che non avrei dovuto stare così male ancora una volta. Pensavo di morire.

Ma non sono solo il travaglio e il parto a rendere dura la gravidanza. Anche il resto può essere brutto, e dico sul serio. Chiedete a Kate. Conosco donne che hanno gravidanze tollerabili e perfino belle. E rendo grazie a Dio per questo. Ma io non ho amato le mie gravidanze. Nella maggior parte dei casi, volevo solo sopravvivere ad esse.

Non è una cosa di cui parliamo molto spesso. Forse perché temiamo che parlare negativamente della gravidanza possa portare più donne ad abortire, o cedere qualche pezzo di vittoria alle femministe. O forse temiamo che mini i nostri sforzi di difendere l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Tutto questo sarebbe comprensibile.

Il risultato di questa reticenza, però, è che sono le femministe a passare la maggior parte del tempo parlando della difficoltà e dei pericoli della gravidanza – non senza ironia, visto che le femministe della nostra generazione tendono ad essere incinte per ben poco tempo.

Penso che dovremmo parlare di più degli aspetti negativi, ovviamente non per essere tristi, ma per aiutare la gente a comprendere il significato fondamentale della vocazione cristiana, un messaggio fondamentali nella Mulieris Dignitatem e nel Concilio Vaticano II. Non si possono promuovere questi insegnamenti fondamentali sulla base dell’immagine di un cartone animato di una donna incinta che spazza via le difficoltà. La gente non vuole fuggire alla sofferenza. Vuole sapere che la sua sofferenza ha un senso.

E qual è il senso della gravidanza e del parto? La donna incinta è un segno di contraddizione – perché la gravidanza, che porta una nuova vita, non può finire senza sacrificio. La donna incinta è anche un segno della Passione di Cristo, soprattutto nell’atto del parto. Ed è un segno della fecondità della Chiesa, la Sposa di Cristo. La gravidanza è esattamente un segno di ciò che significa essere cristiani. E come la gravidanza, il cristianesimo sembra avere senso ed essere bello per un po’ all’inizio, fino al punto in cui si capisce – e avviene sempre – che correre fino al traguardo richiede il sacrificio della propria vita.

Nella Mulieris Dignitatem (22), Giovanni Paolo II riflette:

Proprio di fronte alle «grandi opere di Dio» l’apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore» (Gal 4, 19). Nella prima Lettera ai Corinzi (7, 38) l’apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina costante della Chiesa nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel Vangelo di Matteo (19, 10-12), senza affatto offuscare l’importanza della maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione della Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità”

È per questa ragione che il mondo secolarizzato è in guerra con la gravidanza e la maternità. E vale la pena rifletterci. Il rifiuto della femminilità è strettamente collegato al rifiuto della Chiesa. “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” Se a volte sembra che il mondo abbia provato le sue armi più scelte su tutto ciò che è eminentemente femminile, è perché è così. È questa la vera guerra contro le donne.

Ovviamente niente di tutto ciò è un accidente della nostra epoca. I primi cristiani si distinguevano fin dall’inizio per il fatto di rifiutare l’aborto e l’esposizione dei bambini, e questo in un’epoca in cui ogni gravidanza comportava un rischio reale di morte materna. Non eravamo ancora immunizzati contro i suoi pericoli, ma la Chiesa delle origini promuoveva un’amore di fertilità profondamente contrario alle culture prevalenti all’epoca.

La Chiesa la pensa ancora così: onora la gravidanza con tutte le sue difficoltà di fronte a una cultura che ostacola e dispone della gravidanza come nessun’altra nella storia umana. Loda perfino come esempi di virtù eroiche quelle donne (Santa Gianna Molla e altre) che ci mostrano come amare la maternità più della vita stessa. In questa prospettiva, possiamo vedere il punto fermo nella storia della Chiesa: “non si può avere un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è ‘umano’, senza un adeguato ricorso a ciò che è ‘femminile’” (Mulieris Dignitatem, 22).

Il destino della Chiesa, e il destino dell’umanità, dipende dalla dignità accordata alle donne.

Catherine Ruth Pakalukè assistente di Economia presso l’Ave Maria University, Faculty Research Fellow presso lo Stein Center for Social Research e Senior Fellow in Economia presso l’Austin Institute for the Study of Family and Culture. La sua ricerca si concentra sui settori della demografia, del genere, degli studi sulla famiglia e dell’economia dell’educazione e della religione. Lavora anche sull’interpretazione e la storia del pensiero sociale cattolico. Ha conseguito un dottorato in Economia presso l’Università di Harvard (2010). Vive ad Ave Maria, in Florida, con il marito Michael e i loro sette figli.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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