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iWatch, la grande illusione di controllare la realtà

iWatch e postumano

© Public Domain

Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 12/09/14

Un nuovo passo nella trasformazione, già in corso, dell’essere umano in “dato” virtuale?

L’uscita è prevista subito dopo Natale, e anche quest’associazione contiene una sua ironia. È un oggetto, infatti, che sembra promettere la nascita di un altro genere di essere umano rispetto a quello che conosciamo. Appena lanciato, l’Apple iWatch è l’ultimo ritrovato della “wearable technology”, cioè della tecnologia indossabile, e promette di lavorare in perfetto accordo con il nostro iPhone. Sempre a portata di “sguardo”, questo vero e proprio orologio, che sarà disponibile in diversi modelli e colori, ci segnalerà in tempo reale una serie di informazioni – dalle chiamate alle mail, dalle mappe alla nostra frequenza cardiaca, dalle nostre emozioni (ad esempio, con un piccolo tocco si potrà far capire ad una persona in possesso di iWatch di averla pensata) alle condizioni meteo – che ci faranno percepire un assoluto senso di controllo sulle cose intorno a noi. Controindicazioni? Noi, la nostra identità sarà sempre più dissolta in un mondo che sembra essersi dimenticato della bellezza della realtà. Ne abbiamo parlato con padre Paolo Benanti, docente di Tecnoetica e di corsi sul Postumano presso la Pontificia Università Gregoriana.

L’iWatch cambierà davvero la vita delle persone, come si sostiene?

Benanti: Dipende che cosa intendiamo per cambiare le vite. Ogni tecnologia si frappone tra noi e la realtà, quindi anche questo prodotto, che potenzialmente è destinato ad andare sui polsi di duecento milioni di persone come ha detto Apple stessa, si frapporrà tra la realtà e duecento milioni di persone. La cosa che c’è dietro a questo tipo di dispositivo è senz’altro il fatto che il gigante della Silicon Valley ha ridisegnato la linea di confine che separa la tecnologia da noi stessi. Se fino a ieri era uno schermo grande, e parlavamo di computer, oppure uno schermo più piccolo, e parlavamo di Smartphone, questa “wearable tecnology” ridisegna questa linea, e questo potrebbe non essere una buona cosa. Va detto, molto serenamente, perché se è vero che fino ad oggi diversi analisti hanno sottolineato l’utilità di vivere con un iPhone o con qualsiasi altro tipo di device connesso, e se è vero che questi oggetti ci hanno aiutato a percepire la realtà appena un po’ meno reale, questo nuovo modello di device, che ci mette in una modalità di “sempre connessi”, ci immette in un flusso di formazione di pensiero che si frappone tra noi e la realtà in una maniera sempre più invadente e sempre meno distinguibile da essa.

Dunque questi oggetti non sono più semplici strumenti a nostra disposizione, ma c’è qualcosa di più?

Benanti: Si, c’è qualcosa di più in tanti sensi. Se fino ad oggi nel momento in cui facevamo una riunione potevamo dire: “spegniamo i cellulari e concentriamoci”, l’orologio è una cosa che uno porta sempre con sé. In rete girano un paio di vignette di artisti che mostrano persone strangolate da radici, che sono Twitter e Facebook, che escono dai telefoni. Il fatto che la tecnologia diventi “indossabile” suggerisce un’assonanza con quell’antica caratteristica di capire il mondo e la realtà che erano le virtù: le virtù erano abiti, erano modi di capire il bene, di viverlo e di cercarlo sempre di più. Ora questi abiti diventano tecnologici e sempre più potenti, e indossarli potrebbe farci scivolare sempre più senza che ce ne accorgiamo verso quella frontiera della condizione post-umana che parecchi studiosi stanno additando come la prossima condizione dell’umano. Questa condizione si fonda su un paradosso: il controllo su un corpo che è qualcosa di capito come “male”. La tecnologia in fondo è un sistema sofisticato di controllo: con essa io posso controllare la realtà, so in ogni momento i miei cari dove stanno, so cosa pensano di me le persone tramite Twitter e Facebook, c’è una connessione emotiva. Stiamo lentamente trasformando il nostro corpo da un’unità, che noi eravamo soliti chiamare “persona”, anche come credenti, a un insieme di dati. Il nuovo iPhone e il nuovo orologio sono fatti per lavorare insieme, anche attraverso questo coprocessore che è stato inserito nel telefono, l’M8, che trasforma il nostro stato in una serie di dati che il telefono capisce.

Cosa comporta questo?

Benanti: Questa è una dinamica molto interessante per la quale il telefono sa quello che mi accade, e lo sa trasformando in dati quello che vivo: le accelerazioni, il barometro, l’altitudine, la quota, la posizione, la velocità, sono tutti fattori che il telefono percepisce. Non solo spinge internet verso di me in ogni circostanza, ma equipara me agli altri dati che viaggiano su internet. Il tutto trasformato con un’interfaccia bellissima, studiata per l’Apple Watch e per l’iPhone, che ci da' l’impressione di avere noi il controllo delle cose. Questo significa di fatto ridisegnare la mappa di dove la tecnologia sta nel mondo e dove sta nel nostro e nell’altrui corpo. È come se questo iWatch fosse una gomma da cancellare che sfoca quella linea di demarcazione tra unità personale e mondo della tecnologia. Quello che prima era esterno inizia a passare dentro: io vi invito a rivedere tutte le fasi di lancio del telefono, dove si parlava di queste “notificazioni aptiche” in cui il telefono comunica col corpo nella modalità dei sensi. Se noi volessimo continuare in questa linea futuristica potremmo dire che dopo l’iWatch il prossimo prodotto potrebbe essere l’iPlant, cioè qualcosa che si impianta direttamente nel corpo.

Questi prodotti non stanno scavando delle distanze antropologiche tra le generazioni?

Benanti: Sì, secondo me il problema è qui. Con queste tecnologie capire quello che è la bellezza dell’essere umano, cosa vuol dire essere uomini è ormai una cosa diversa. Se i nostri genitori e i nostri nonni avevano un modo di capire che cosa vuol dire essere uomini che si fondava soprattutto sull’esperienza del reale, oggi noi lo capiamo fondandoci su esperienze di social network, di relazioni mediate dalla tecnologia. Sì, c’è una differenza antropologica, che parte soprattutto dalla differenza nel capire che cosa è umano e che cosa è rilevante, perché se oggi ciò che è importante, ciò che il telefono prende di me è solo ciò che diventa dato, cioè numero, io passo dal capire l’uomo come un insieme di valori a pensarlo come un insieme di dati. Questo è un grande problema, che crea una divisione nella società. L’altro grande problema è che questo viene fatto da una singola compagnia privata, che dà legittimità allo standard nei confronti di questi dati, che sono la realtà che noi siamo. È la Apple che decide quanto controllo dobbiamo avere e quanto invece dobbiamo lasciare a loro sulle nostre vite. Ed è interessante che tutta la catena dei prodotti Apple inizi con la lettera “i”, e quindi coll’io soggetto. Questo è un gioco in cui si trasforma la persona-essere di relazione sempre più in individuo in balia di un mondo che è fatto di realtà virtuale.

Il mercato sta seguendo Apple in questo?

Benanti: C’è un gioco particolare tra Apple che segue il mercato, e il mercato che segue Apple. Steve Jobs lo diceva sempre, se uno rilegge la sua biografia: io intuisco delle cose, ma poi mi stupisco di quanta gente ossessionata cerchi i miei prodotti. Perché in fondo loro sono molto bravi a percepire un desiderio latente che vive nel nostro sociale, che è quel desiderio postmoderno, e postumano, di felicità dove tutto diventa piacere e centrato sul soggetto. Se è così una tecnologia che mette il soggetto, l’I, al primo posto non può che assecondare questa modalità di capire la felicità. Zygmut Bauman parla di “vita liquida”: in questa, io le relazioni le accendo quando voglio. L’Apple Watch rende questo possibile, perché si tratta di relazioni virtuali. Quando i nostri nonni vivevano nella piazza del Paese, era quella che dettava le relazioni, e vivere lì significava vivere quelle relazioni. 

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