Dov'è Dio oggi in Iraq?
di Amal Marogy
Qualche settimana fa – mentre cercavo disperatamente di ottenere qualche notizia su Mosul e su mia zia suor Utuur –, sono rimasta scioccata nel leggere la notizia che temevo di più: “Due suore, due ragazzine orfane e un ragazzino ostaggi dell’ISIS”. Le domande mi si sono subito affollate nella mente: “Perché stavano rischiando la propria vita, per amor di Dio?”, “Come può Dio permettere questo?”… Ma la domanda più urgente e pressante era “Dov’è Dio?”.
È questo l’interrogativo che mi ha tormentato per qualche mese dopo aver visitato la “Casa del Terrore” a Budapest nel febbraio scorso. Il museo è ospitato nell’ex quartier generale della polizia segreta prima nazista e poi comunista. È stato teatro di terrore, torture ed esecuzioni. Una volta che le porte d’acciaio si sono richiuse dietro di me, un’ondata di angoscia e disperazione ha iniziato a divorarmi, come avrà divorato i prigionieri che salivano e scendevano le scale di quel luogo tremendo.
La nostra visita sinistra è finita al pianterreno. La discesa dell’ascensore fino a lì è stata abbastanza lunga da permetterci di visionare un video di una guardia che spiegava con freddezza la “cerimonia” dell’impiccagione. Il mio giovane ospite, un mio studente, mi ha portato da una cella di tortura all’altra. In ciascuna, ha descritto dettagliatamente ogni metodo e strumento di tortura che vi era esibito. Poi ha mi raccontato pazientemente la storia di ogni vittima la cui immagine pendeva nelle celle.
Durante quella visita spaventosa, la mia mente e il mio cuore erano impegnati in un violento dibattito interiore – argomentazioni e controargomentazioni andavano avanti e indietro. Questo dibattito è terminato quando mi è stata mostrata una cella in cui i prigionieri venivano immersi in acqua sporca per giorni e giorni. È stato allora che non sono più riuscita a trattenere il grido “Dov’è Dio?”.
La domanda che avevo sempre cercato di tenere nelle retrovie della mente – una domanda che irriterà sicuramente chiunque è stato allevato a credere nel Dio Buono – è diventata all’improvviso una questione scottante. È stato in quel momento che ho sentito una voce gentile sussurrare una risposta chiara: “Ero lì! Nessuno è entrato in quella cella senza che lo accompagnassi. Porto ancora i segni della croce”.
Ricordo di essermi riempita allora di pace e gratitudine per il mio Dio – che non è solo onnipotente, ma ha sperimentato egli stesso il dolore e la paura più profondi che possano mai aggredire un cuore umano. Ancora, Gesù non è solo colui che ha sofferto di più, ma sa cosa vuol dire vedere la sofferenza negli occhi delle persone care, il cui dolore silenzioso può essere a volte più duro da sopportare della propria sofferenza fisica. Solo lui può capire il dolore che stava trafiggendo il cuore di sua Madre mentre questa guardava il suo unico figlio innocente crocifisso. Solo lui può capire il dolore di vedere i suoi fratelli e le sue sorelle cristiani torturati e giustiziati oggi.
Ci vorrebbero più di dieci pagine per descrivere la scuola di sofferenza che la mia famiglia – come tante famiglie irachene – ha attraversato. Mio padre è morto vent’anni fa, lasciando una splendida vedova di 28 anni e quattro bambine. Il mio nonno paterno ha visto la sua casa distrutta due volte. Sia dalla parte di mio padre che da quella di mia madre, le mie nonne e due giovani zii sono morti a poca distanza l’uno dall’altro. Grazie alla grande fede della mia famiglia, che ho potuto toccare letteralmente con mano, ho potuto però individuare sempre le tracce lasciate dal Dio Buono come segno della sua presenza.