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Malati e disabili: degni di vivere?

Mario Melazzini

© Public Domain

Anna Pelleri - Aleteia - pubblicato il 09/09/14

Mario Melazzini, medico e malato di SLA, racconta perché la malattia non toglie la felicità

La malattia toglie dignità? Un malato può essere felice? La ricerca deve eliminare chi soffre o trovare cure e modalità che aiutino a vivere pur con la malattia o la disabilità? Si possono fare molti ragionamenti al riguardo, citare studi e ricerche. Rimane però un dato: questi “malati” e “disabili” sono persone.

Identificarle con la condizione che vivono snatura l’essere umano rendendolo indegno di vivere o addirittura di nascere.

Quando vengono accompagnate e amate, quando la società, le istituzioni e la medicina svolgono il loro compito, ossia curano e accompagnano malati e famiglie, allora non si parla più di “malato” o “disabile”, ma di persone, degne di vivere in quanto tali, e che vogliono vivere, come ci racconta Mario Melazzini medico e malato di SLA (Sclerosi laterale amiotrofica), direttore scientifico del centro clinico NeMo Milano e presidente AriSla (agenzia per la ricerca sulla SLA) e assessore alle attività produttive (Regione Lombardia).

Che cos’è la malattia? Una condizione da accettare, da combattere, da eliminare, un’opportunità…

Melazzini: Indipendentemente dalla patologia, la malattia non toglie dignità, anche una malattia come la SLA di cui io soffro e che è altamente invalidante in quanto toglie tutto dal punto di vista motorio e non solo. Nella mia esperienza la malattia mi ha fatto comprendere che l’essere conta più del fare. Quindi vivo la malattia seppur con grande difficoltà ma come un’opportunità, senza guardare indietro a ciò che no riesco più a fare, e senza tentare di fare ciò che non è più possibile E’ necessario avere la consapevolezza del proprio limite e del limite imposto dalla  malattia. Allo stesso tempo si può vivere tale condizione come un’opportunità, guardando con positività tutto ciò che si può ancora fare per sé stessi, per gli altri e chi è interessato a un’esperienza come la tua: cerco di fare tesoro della mia esperienza per traslarla in un metodo da mettere a disposizione di altri.

E’ possibile essere felici? Le recenti parole dello studioso di Oxford Richard Dawkins “Se la tua morale è basata, e la mia lo è, sul desiderio di aumentare la felicità e ridurre la sofferenza, la decisione di far nascere coscientemente un bambino Down, quando si può scegliere all’inizio della gravidanza, potrebbe essere immorale dal punto di vista del benessere del bambino”,  sembra di no…

Melazzini: Con tutto il rispetto di questo signore, ma il modo è pieno di persone che emettono sentenze o esprimono pensieri che credono possano fare da dottrina senza conoscere esattamente a cosa corrisponde il vivere una condizione o vivere una vita con persone che sono portatori di disabilità o malattia. Questo atteggiamento è anche il segno della paura della malattia e della disabilità, in un modo in cui si usa come metro di paragone la perfezione. Questo porta anche ad una definizione di dignità che è legata però a un giudizio estremamente esteriore: rapportata cioè alla qualità della vita che a sua volta viene fatta equivalere a un benessere dal punto di vista economico, della salute, relazionale. La dignità invece è un carattere ontologico che non può essere misurato né rapportato a una definizione misurata con indicatori utilitaristici, propria di chi è convinto che nascere – in questo caso specifico – con la sindrome di Down possa essere un grave problema. Le persone con disabilità, indipendentemente dal tipo di disabilità neonatale o acquisita sono delle risorse e come tali devono essere viste. Il nostro atteggiamento di società e mentale deve avere la consapevolezza che la disabilità e la malattia fanno parte del vivere quotidiano, non possono essere allontanate né eliminate. Siamo noi che dobbiamo avere il coraggio e la consapevolezza che fanno parte della realtà e in essa viverle.

Si parla di aborto quando c’è un problema nel nascituro, di eutanasia a fronte di malattia. Sembra che la ricerca debba trovare i modi “migliori” per eliminare il “problema”. Che ruolo ha invece la ricerca?

Melazzini: La ricerca prima di tutto è lo strumento in cui la parola speranza lega come un fil rouge il ricercatore alla persona destinataria del risultato della sua attività. La ricerca deve essere tesa a trovare soluzioni per una patologia, a rallentarne il decorso  o a migliorare la qualità della vita del malato. Non deve invece nascere solo con lo spirito di eliminare ciò che viene definito come un “problema”. Nel caso specifico dell’aborto o dell’eutanasia, è la negazione di un diritto e un bene inviolabile che è la vita. La vita di default deve essere vissuta dal concepimento fino alla morte naturale anche con la malattia. Non siamo nessuno  e non dobbiamo far nulla per anticipare tale momento. Per far questo serve abbattere quell’atteggiamento della nostra società che considera il malato o il disabile come un problema e la sofferenza non solo fisica non tollerabile e non coniugabile con una vita cosiddetta “degna di essere vissuta”. Se una persona anche con una gravissima malattia viene messa nelle condizioni di sentirsi presi in carico, lui e la sua famiglia, non assisteremo a decisioni rinunciatarie, ma invece alla continuazione di un percorso di vita anche con la malattia in quanto supportato nel modo giusto. Un altro tema è l’accanimento terapeutico che, come medico, mi sento di dire che non deve neanche esser ipotizzato. Deve invece crescere l’accompagnamento, che non vuol dire appunto accanirsi, ma mettersi a disposizione e mettere a disposizione gli strumenti della medicina per rendere migliore la qualità di vita della persona malata e abbattere i pregiudizi culturali presenti nella nostra società.

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