Immaginazione ed evangelizzazione hanno qualcosa da dirsi? Le parole di Padre Marko Ivan Rupnik
Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno, dice il protagonista de “L’idiota” di Dostoevkij, fissando un Cristo morto di Hans Holbein il Giovane. La questione non è certo secondaria se la citazione compare in Lumen fidei (n.16), l’enciclica a firma di Papa Francesco su cui aveva già lavorato Benedetto XVI. Come fanno intuire le parole del principe Myskin, il rapporto tra arte e fede è centrale, ma al tempo stesso problematico. Ne parliamo con il gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik, artista, consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura e del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, dottorando (Facoltà di Missiologia) e in seguito docente (Facoltà Di Teologia) alla Gregoriana.
Forse, prima della questione di evangelizzare attraverso l’arte, dovremmo chiederci: come risanare il rapporto tra l’uomo comune e il mondo artistico, dal quale si sente spesso distante?
E’ un punto nevralgico. L’arte prima è uscita dal tempio – cioè dalla Chiesa –, poi è passata nel palazzo del potere temporale, infine nella galleria e nel museo, che però non sono spazi per la vita. Nel momento in cui l’arte si è staccata dallo spazio vitale dell’uomo, si è rinchiusa sul soggetto.
Oggi l’arte riesce sempre meno a far sì che l’altro, vedendo l’opera, esclami: “Ecco, questo è proprio ciò che avrei voluto dire anch’io, ma non trovavo le parole!” Oggi la gente non ha più l’esperienza di un’arte che susciti meraviglia, e allora se ne disinteressa o si abbandona al kitsch. Così, capisco le persone che preferiscono pregare davanti a una Madonna di plastica, piuttosto che davanti a un’opera del più grande artista contemporaneo, perché quest’ultima non li aiuta a creare in loro la relazione necessaria per pregare.
Quando si parla di evangelizzazione, raramente si considera il mondo dell’immaginazione, che tuttavia precede qualsiasi esperienza di fede e oggi pervade le nostre vite attraverso gli sviluppi della tecnologia. Da dove partire?
Oggi l’immaginazione del popolo di Dio si nutre tutta dell’immagine digitale, che nel 99% non è un’immagine spirituale, non è ciò un’immagine che orienta, spinge, relaziona e unisce l’uomo a Dio. E’ invece un’immagine sensuale, che inchioda nell’al di qua alle sole esigenze della natura è un’immaginazione ferita, perfino avvelenata. I santi sono il nutrimento della nostra immaginazione. Il Concilio di Nicea promuoveva l’immagine dei santi perché era una questione cristologica e antropologica. Ma, nell’epoca moderna, l’immagine perde la dimensione universale ed ecclesiale concentrandosi sempre più sull’individuo. E allora perfino i santi vengono rappresentati con le proprie perfezioni individuali in immagini che suscitano sensualità. Così è sempre il mio “io” a venir provocato, in maniera che non riusciamo ad accedere a una visione comunionale. Ma senza immaginazione non posso creare nulla. Oggi la gente dice: “Padre, come si fa oggi il papà di famiglia? Come si fa la moglie? Come si fa il sacerdote? Da dove prendo l’ispirazione?”. L’immagine era per l’ispirazione, perché l’immagine – essendo espressione della vita – comunionale, perché la vita stessa è comunionale. Quando abbiamo “spento” l’immagine, essa è diventata semplicemente un modello per l’individuo. Abbiamo distrutto l’immagine e l’abbiamo resa modello. Ma non c’è peggior cosa, dicono giustamente gli psicologi, dell’avere un’immaginazione sfasata tra ideale e reale.
Dall’immaginazione siamo passati all’ispirazione, cosa ben diversa dall’imitazione. Chiariamo bene la differenza.
Faccio un esempio. Durante i pasti, i monaci ascoltavano le vite dei santi e, quando si parlava di dati storici, l’abate bussava sul tavolo e la lettura proseguiva a bassa voce, perché in quel momento non venissero distratti dalla vita spirituale. Quando l’abate sentiva che si tornava a parlare delle loro opere, batteva di nuovo sul tavolo dicendo: “Legenda!”, cioè “Sia letto!”. Da qui nasce la forma letteraria della “leggenda”. Ci sono documenti dove i fatti storici sono scritti in lettere piccole, mentre altre informazioni venivano “aumentate”. Un amanuense, ad esempio, leggeva che un santo aveva fatto tre giorni di digiuno e pensava: “Ma tre giorni di digiuno li ho fatti anch’io, che sarà mai!”. Allora scriveva che il santo ne aveva fatti tredici. Ma i monaci di quel tempo sapevano che le vite dei santi non si leggono per imitazione, ma per ispirazione. Con il pensiero moderno, tutto si è centrato la razionalità e volontà individuale, cioè sono io che devo imitare questo o quel santo… ma come posso imitare, ad esempio, la Madre di Dio piena di grazia? Oggi l’omelia è solo ascoltata e non vista. Ma il Concilio di Nicea II dice con chiarezza che la Chiesa va costruita in modo che, anche quando non c’è la liturgia, sia l’arte a proclamare e annunciare. Nei tempi antichi, la predica era fatta attraverso i mosaici e gli affreschi sulle pareti, le quali – dicevano i Padri – sono gli autoritratti della Chiesa: io prendo coscienza di ciò che sono guardando le pareti. Ma, quando queste pareti sono state appesantite dalle immagini di santi secondo una forma individualista, allora ciò che vedo è la distanza che mi separa dal modello, invece che rafforzarmi nella comunione.