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Il segreto dell’arte? È la comunione

Marco Rupnik e l’art

© Centro Aletti

Paolo Pegoraro - La Gregoriana - pubblicato il 09/09/14

Immaginazione ed evangelizzazione hanno qualcosa da dirsi? Le parole di Padre Marko Ivan Rupnik

Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno, dice il protagonista de “L’idiota” di Dostoevkij, fissando un Cristo morto di Hans Holbein il Giovane. La questione non è certo secondaria se la citazione compare in Lumen fidei (n.16), l’enciclica a firma di Papa Francesco su cui aveva già lavorato Benedetto XVI. Come fanno intuire le parole del principe Myskin, il rapporto tra arte e fede è centrale, ma al tempo stesso problematico. Ne parliamo con il gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik, artista, consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura e del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, dottorando (Facoltà di Missiologia) e in seguito docente (Facoltà Di Teologia) alla Gregoriana.

Forse, prima della questione di evangelizzare attraverso l’arte, dovremmo chiederci: come risanare il rapporto tra l’uomo comune e il mondo artistico, dal quale si sente spesso distante?

E’ un punto nevralgico. L’arte prima è uscita dal tempio – cioè dalla Chiesa –, poi è passata nel palazzo del potere temporale, infine nella galleria e nel museo, che però non sono spazi per la vita. Nel momento in cui l’arte si è staccata dallo spazio vitale dell’uomo, si è rinchiusa sul soggetto.

Oggi l’arte riesce sempre meno a far sì che l’altro, vedendo l’opera, esclami: “Ecco, questo è proprio ciò che avrei voluto dire anch’io, ma non trovavo le parole!” Oggi la gente non ha più l’esperienza di un’arte che susciti meraviglia, e allora se ne disinteressa o si abbandona al kitsch. Così, capisco le persone che preferiscono pregare davanti a una Madonna di plastica, piuttosto che davanti a un’opera del più grande artista contemporaneo, perché quest’ultima non li aiuta a creare in loro la relazione necessaria per pregare.

Quando si parla di evangelizzazione, raramente si considera il mondo dell’immaginazione, che tuttavia precede qualsiasi esperienza di fede e oggi pervade le nostre vite attraverso gli sviluppi della tecnologia. Da dove partire?

Oggi l’immaginazione del popolo di Dio si nutre tutta dell’immagine digitale, che nel 99% non è un’immagine spirituale, non è ciò un’immagine che orienta, spinge, relaziona e unisce l’uomo a Dio. E’ invece un’immagine sensuale, che inchioda nell’al di qua alle sole esigenze della natura è un’immaginazione ferita, perfino avvelenata. I santi sono il nutrimento della nostra immaginazione. Il Concilio di Nicea promuoveva l’immagine dei santi perché era una questione cristologica e antropologica. Ma, nell’epoca moderna, l’immagine perde la dimensione universale ed ecclesiale concentrandosi sempre più sull’individuo. E allora perfino i santi vengono rappresentati con le proprie perfezioni individuali in immagini che suscitano sensualità. Così è sempre il mio “io” a venir provocato, in maniera che non riusciamo ad accedere a una visione comunionale. Ma senza immaginazione non posso creare nulla. Oggi la gente dice: “Padre, come si fa oggi il papà di famiglia? Come si fa la moglie? Come si fa il sacerdote? Da dove prendo l’ispirazione?”. L’immagine era per l’ispirazione, perché l’immagine – essendo espressione della vita – comunionale, perché la vita stessa è comunionale. Quando abbiamo “spento” l’immagine, essa è diventata semplicemente un modello per l’individuo. Abbiamo distrutto l’immagine e l’abbiamo resa modello. Ma non c’è peggior cosa, dicono giustamente gli psicologi, dell’avere un’immaginazione sfasata tra ideale e reale.


Dall’immaginazione siamo passati all’ispirazione, cosa ben diversa dall’imitazione. Chiariamo bene la differenza.

Faccio un esempio. Durante i pasti, i monaci ascoltavano le vite dei santi e, quando si parlava di dati storici, l’abate bussava sul tavolo e la lettura proseguiva a bassa voce, perché in quel momento non venissero distratti dalla vita spirituale. Quando l’abate sentiva che si tornava a parlare delle loro opere, batteva di nuovo sul tavolo dicendo: “Legenda!”, cioè “Sia letto!”. Da qui nasce la forma letteraria della “leggenda”. Ci sono documenti dove i fatti storici sono scritti in lettere piccole, mentre altre informazioni venivano “aumentate”. Un amanuense, ad esempio, leggeva che un santo aveva fatto tre giorni di digiuno e pensava: “Ma tre giorni di digiuno li ho fatti anch’io, che sarà mai!”. Allora scriveva che il santo ne aveva fatti tredici. Ma i monaci di quel tempo sapevano che le vite dei santi non si leggono per imitazione, ma per ispirazione. Con il pensiero moderno, tutto si è centrato la razionalità e volontà individuale, cioè sono io che devo imitare questo o quel santo… ma come posso imitare, ad esempio, la Madre di Dio piena di grazia? Oggi l’omelia è solo ascoltata e non vista. Ma il Concilio di Nicea II dice con chiarezza che la Chiesa va costruita in modo che, anche quando non c’è la liturgia, sia l’arte a proclamare e annunciare. Nei tempi antichi, la predica era fatta attraverso i mosaici e gli affreschi sulle pareti, le quali – dicevano i Padri – sono gli autoritratti della Chiesa: io prendo coscienza di ciò che sono guardando le pareti. Ma, quando queste pareti sono state appesantite dalle immagini di santi secondo una forma individualista, allora ciò che vedo è la distanza che mi separa dal modello, invece che rafforzarmi nella comunione.


Affrontiamo allora la questione dell’arte nei luoghi di culto dopo il concilio Vaticano II. Nonostante il rinnovamento liturgico, da decenni proliferano progetti di chiese discutibili. Cosa non ha funzionato?

Penso sia cominciato tutto molto prima. Abbiamo digerito male l’evento del protestantesimo, al punto da imboccare alcune strade per semplice contrapposizione. In molte basiliche, ad esempio, sono stati distrutti gli amboni. L’arte, persa la dimensione strettamente liturgica, è diventata decorazione dello spazio. Siamo arrivati al Vaticano II insofferenti verso il tradizionalismo perché molte cose erano ormai divenute sterili. L’arte stanca e anemica di quel periodo lo testimonia. Infatti, nel momento in cui le assi teologiche e dogmatiche sono meno chiare, si comincia a far leva sull’emozione, e l’arte diventa stile e devozionismo. Faccio un esempio: per esprimere un volto spirituale della Madre di Dio, questo volto deve avere dentro di sè l’Amore, e
l’amore cristiano è la Pasqua, perché la Madre di Dio ha attraversato la sua Pasqua. Allora io devo mostrare l’amore drammatico che vive nella storia al ritmo del Triduo pasquale. Per fare questo devo averne esperienza. Per averne esperienza, devo esserci immerso e conoscere bene le coordinate teologiche di Cristo nell’antropologia, cioè nell’uomo. Ma, se non ho tutto questo, allora dico: “Ah, il ritratto della Madre di Dio! Cerchiamo di farla dolce”. E scivolo sullo sdolcinato, sul cosmetico, sul pagano.

Ecco, siamo arrivati al Concilio così stanchi di certe forme che, quando ci siamo aperti all’inculturazione, il trend culturale anti-tradizione è stato così forte che, volenti o nolenti, ci ha trascinati ed è stato un grande fraintendimento, perché non esiste, negli ultimi secoli, un momento d’intelligenza liturgica cos. potente come quello dei periti che hanno preparato il Vaticano II. E come l’hanno preparato? In un modo molto semplice, ma estremamente profondo e onesto: per toccare la liturgia, bisogna conoscere come è nata, bisogna studiare la tradizione. Ora, questi uomini così radicati nella tradizione si sono trovati in un trend culturale devastante della cultura maggioritaria, ma le linee che hanno tracciato non sono sbagliate. Cosa si deduce, ad esempio, per l’architettura? Che la chiesa deve esprimere la comunità che vi celebra al suo interno, cioè La comunione – quella trinitaria e quella eucaristica – nella storia. L’architettura dovrebbe allora, come primo elemento, creare uno spazio che incarni questa doppia comunione, trinitaria ed eucaristica. Ma per l’Eucaristia ci vuole il vescovo, che significa la successione, la tradizione, la memoria, dunque l’importanza della sede è che ci sono tantissimi elementi che sono stati totalmente trascurati dal trend culturale, ma il Concilio li aveva molto ben impostati.

Parlando di inculturazione, visti i suoi numerosi viaggi in tutto il mondo con l’equipe del Centro Aletti, vorrei chiederle se negli altri continenti si riscontrano gli stessi problemi.

La situazione non è migliore fuori dall’Europa, ma siamo in un momento in cui la gente sta diventando molto sensibile e addirittura è disponibile al sacrificio per rendere una chiesa degna di questo nome. Quante volte, partendo dopo aver concluso un mosaico, ci siamo sentiti dire: “Grazie, ci state lasciando la nostra chiesa come una chiesa, perché finora non lo era”. Per noi è una grazia immensa. Lavorando in vari Paesi, abbiamo vissuto esperienze commoventi. Testimonianze di persone molto preparate intellettualmente, come pure di persone molto semplici, che, davanti alla stessa opera in chiesa, vivono esperienze fortissime. E questa è stata per noi una grande conferma. Penso che oggi i fedeli si aspettino un’arte svincolata dalla presentazione di modelli perfetti, come pure da un espressionismo violento. Penso che si aspettino un’arte che attinge ad un Mistero che poi pian piano scopriranno.


Anche oggi il rapporto tra Chiesa e arte contemporanea suscita reazioni molto accese…

Quando si parla di portare l’arte contemporanea dentro le chiese non possiamo essere ingenui, cioè senza discernimento. Sarebbe bello, come diceva Giovanni Paolo II, cominciare a pensare alla cura spirituale degli artisti. Occorre frequentarli, vivere insieme a loro, dedicare tempo all’amicizia, perché, attraverso l’amicizia, si comincia a dischiudere il loro mondo più profondo. Giovanni Paolo II diceva inoltre che l’arte nel XX secolo non riesce a presentare il Risorto, perché l’artista manca ancora dell’esperienza della Resurrezione. Penso che, per poter uscire dal guscio nel quale ci ha rinchiusi il soggettivismo moderno, l’artista dovrebbe aver accesso all’esperienza spirituale. La Chiesa può aprirsi all’arte contemporanea offrendo tanti spazi che non sono necessariamente quelli liturgici. Vi sono aule, spazi espositivi, cortili, chiostri, dove possiamo “dare spazio” all’artista perché cominci ad avvicinarsi di nuovo, a incontrare una Chiesa che sensibile.

Torniamo ancora una volta alle parole chiave: relazione, comunione.

E’ una questione della vita, c’è poco da fare. Un tempo, quando un ragazzo entrava in monastero per imparare la tecnica
dell’affresco, il maestro-Padre prendeva i suoi attrezzi e colori, li rinchiudeva nell’armadio e gli diceva: “Ragazzo, prima vivrai con noi e, quando entrerai veramente nella vita nuova, sarà facile esprimerla. Altrimenti farai solo cosmetica, imitazione”. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo partire dalla vita. Sono molto a favore di conferenze, simposi e congressi, ma il vero cambiamento avverrà attraverso la vita. Organizzare corsi per gli architetti di chiese è bello, ma anche pericoloso, perché poi si può pensare: “Adesso siamo pronti, perché abbiamo capito ”. Ma, come dice Paolo nella Lettera ai Romani, non è sufficiente capire, ci vuole l’esperienza dell’amore per le cose e per Dio. Anche per questo sono molto grato ai superiori della Compagnia di Gesù che hanno reso possibile il Centro Aletti dove si vive insieme, dove gli artisti possono attingere all’esperienza della Chiesa, e poi è tutto più facile, tutto è diverso. Normalmente, quando vado in giro per vedere gli spazi che ci chiedono di mosaicare, succede che l’architetto della chiesa dica: “Io vorrei creare uno spazio di raccoglimento”. Chiedo alle persone che celebrano in tali spazi e nessuno sente questo bisogno. Allora dico all’architetto: “Scusi, se lei vuole creare un edificio ecclesiastico, non deve cercare di fare uno spazio del silenzio, deve creare lo spazio dell’incontro. Il raccoglimento può essere nella mia stanza”. E la gente capisce: “Sì, è questo quanto cerchiamo, che entriamo in chiesa e sentiamo una comunione… qualcuno che ci vede, ci saluta”. La chiesa non è il “raccoglimento”: la chiesa è l’incontro tra il divino e l’umano.


Se le chiedessero di fare un mosaico per la Gregoriana, quale soggetto sceglierebbe?

Partirei dalla Santa Sofia, l’angelo della Sapienza divina, perché la teologia necessita del pensiero vivo, cioè ecclesiale. Partirei da lì per creare uno spazio in cui vedere che la relazione è lo spazio della conoscenza, della fede e dell’amore. La relazione. Lo dice Cristo: “Voi non mi conoscete perché non conoscete il Padre mio. Se conosceste me, conoscereste anche mio Padre” (Gv 8,19). Non è possibile conoscere l’altro, tanto più una Persona divina, se non in relazione. Quando abbiamo estrapolato la conoscenza – e con essa anche la fede dalla vita –, allora è stata possibile l’assurdità suprema: la separazione della fede dalla vita.

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