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Il Papa a Sant’Egidio: la guerra non ripara le ingiustizie

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AFP/Alberto Pizzoli

Radio Vaticana - pubblicato il 08/09/14

"Il rispetto reciproco, il dialogo e la cooperazione aiuteranno a bandire il sinistro fantasma del conflitto armato"

di Francesca Sabatinelli

Rispetto, dialogo e cooperazione, sono le armi con le quali sconfiggere le guerre. La parola di Papa Francesco arriva forte ai leader religiosi, ma anche ai politici e agli intellettuali, riuniti qui ad Anversa per l’incontro di Sant’Egidio. Il Papa fa riferimento ai conflitti che insanguinano i nostri giorni, partendo dalle lezione impartita cento anni fa dallo scoppio della prima guerra mondiale: “Questo anniversario – dice Francesco – ci insegna che la guerra non è mai un mezzo soddisfacente a riparare le ingiustizie e a raggiungere soluzioni bilanciate alle discordie politiche e sociali”. Ogni guerra, aggiunge Francesco  citando Benedetto XV nel 1917: “è una inutile strage”.  “La guerra trascina i popoli in una spirale di violenza che poi si dimostra difficile da controllare, demolisce ciò che generazioni hanno lavorato per costruire e prepara la strada a ingiustizie e conflitti ancora peggiori”.

Il Papa non cita direttamente alcun luogo di conflitto, ma parla delle ‘guerre’ che oggi affliggono gli uomini, rovinano la vita a giovani e anziani, avvelenano la convivenza tra gruppi etnici e religiosi diversi, costringendo intere comunità all’esilio, non si può rimanere passivi di fronte a tanta sofferenza e a tanti “inutili stragi”. Ecco quindi che le varie tradizioni religiose, unite dallo Spirito di Assisi, possono dare un contributo alla pace, con la forza della preghiera e del dialogo. “La guerra – aggiunge il Papa – non è mai necessaria, né inevitabile”. Si può trovare sempre un’alternativa: è la via del dialogo dell’incontro e della sincera ricerca della verità.

Francesco invita quindi i leader religiosi riuniti in Belgio affinché “cooperino con efficacia all’opera di guarire le ferite, di risolvere i conflitti” e li richiama “ad essere uomini e donne di pace”. Le nostre comunità, conclude il messaggio, siano “scuole di rispetto e di dialogo con quelle di altri gruppi etnici o religiosi, luoghi in cui si impara a superare le tensioni, a promuovere rapporti equi e pacifici tra i popoli e i gruppi sociali e a costruire un futuro migliore per le generazioni a venire”. 

Quale il senso di questo incontro in un momento in cui in molte parti del mondo la parola pace è stata svuotata del suo significato?Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio:

R. – E’ un clima di guerra, dal Medio Oriente al conflitto tra Russia e Ucraina, a tanti conflitti ancora aperti in Africa,  penso particolarmente al Centrafrica. E dunque, ci si chiede che cosa significhi parlare di pace in un momento in cui la guerra sembra prevalere, perché ancora molti pensano – purtroppo – che l’unico modo per sconfiggere la guerra sia con altra guerra. Invece, qui ad Anversa, con tanti leader religiosi da ogni parte del mondo, seguendo lo Spirito di Assisi, noi siamo convinti esattamente del contrario: che l’unico modo per superare la guerra sia vincerla con la pace.

D. – L’Africa è sempre stata nel cuore di Sant’Egidio e di questi incontri, e anche quest’anno, tra i tanti panel, ve ne sono dedicati a questo continente. Ce ne sarà uno, in particolare, sulla Nigeria, Paese che sta vivendo un momento di forte violenza a causa dell’avanzata di "Boko Haram"…

R. – E’ molto interessante il fatto che in tante crisi africane, come in Nigeria o in Centrafrica, ci sia un nuovo ruolo delle religioni per la pace. Questo conferma come l’intuizione di Giovanni Paolo II, nel 1986 ad Assisi, sia stata profetica. Cioè, ridare alle religioni il ruolo di pacificatori nel mondo. Per quanto riguarda in particolare il conflitto nigeriano, si tratta ora di chiamare i cristiani, sia cattolici che protestanti, e i musulmani che seguono la via giusta dell’islam, a individuare come sia possibile isolare il discorso di "Boko Haram" dalla religione. Noi vogliamo, cioè, evitare qualsiasi ambiguità tra religione e violenza, eliminare tutte quelle ambiguità che ancora esistono in certi personaggi che si appropriano della religione per portare avanti un discorso violento di guerra. Questo è lo scopo, anche, del panel particolare sulla Nigeria: separare, cioè, la religione dalla violenza.

D. – Quindi, si ribadisce il ruolo delle religioni per favorire la pace, in conflitti che però non sono generati dalle religioni, a dispetto di quanto ancora oggi affermano taluni, seppur in pochi…

R. – Sì, assolutamente sì. In parte, perché c’è la responsabilità di alcuni che si appropriano del nome religioso per fare la guerra. Noi sappiamo però anche che spesso sono conflitti etnici o per motivi di ricchezza o per motivi di proprietà. Certamente adesso c’è il fenomeno, che si verifica in particolare nell’islam, di gruppi fondamentalisti e direi anche terroristi, penso ai due nuovi califfati, in Nigeria e in Iraq, e già l’idea che ci siano due califfati al mondo risulta un po’ strana, che approfittano di questo tema. Per questo, le religioni devono essere ancora più ferme nell’affermare che non c’è alcun tipo di solidarietà, e non può esserci solidarietà, tra violenza e religione.

D. – Ovviamente, non si potrà non andare con il pensiero alle persecuzioni che vivono i cristiani e gli yazidi, che nel Nord dell’Iraq stanno cercando riparo e salvezza dall’aggressione dei miliziani dello Stato islamico …

R. – Sì, questo certamente sarà al cuore del nostro convegno. Siamo molto felici che potranno partecipare tutte le rappresentanze religiose ed etniche del popolo iracheno, dai sunniti agli sciiti, dagli yazidi ai cristiani e insieme ci interrogheremo per chiederci qual è il futuro dell’Iraq al di là del buio di questo momento. Perché il problema è anche preparare il “dopo”, costruire un futuro di pace.

D. – In tanti anni di incontri sullo Spirito di Assisi, si è visto come le tavole rotonde abbiano attraversato tutte le tematiche: dagli anziani all’ambiente, alle periferie urbane. Purtroppo, però, non si può non notare come negli ultimi tempi, e quest’anno soprattutto, si parli molto di terrorismo e fondamentalismo. E’ difficile in questo modo riuscire a mantenere viva la speranza…

R. – Io penso che noi dobbiamo pensare che il mondo ha bisogno di un futuro, che tutti abbiamo bisogno di un domani, e soprattutto dobbiamo mantenere viva la speranza a partire dal grido, dalla sofferenza delle donne, dei bambini iracheni, degli anziani, di tutte le vittime della guerra. Questo grido è per noi un impegno e una chiamata nuova di responsabilità. Io devo dire che le religioni, qui ad Anversa, sono chiamate anche a fare una certa autocritica: quanto sia
mo stati capaci di costruire un mondo di pace? Troppo poco. Ebbene, il grido di chi soffre è un nuovo appello a una solidarietà e a un impegno più forte, per la pace nel mondo. E’ da qui che nasce la speranza: la speranza nasce quando si tocca la sofferenza.

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