Come ritrovare una rinnovata gioia di vivere le ore scolastiche, nonostante fatica e fallimenti?
Ho scritto un articolo in vista dell’inizio della scuola. Si tratta di una modestissima riforma alla portata di tutti, perché non è di sistema, ma di testa e cuore del singolo. Per il resto vi rimando a quest’altro articolo del Corriere.
La società della stanchezza. Così un filosofo ha definito il nostro tempo. Una cultura costruita attorno alla prestazione inevitabilmente porta all’esaurimento del desiderio, della gioia di vivere, del tempo buono e paziente da dedicare alle relazioni, che invece si riducono a controllo, manipolazione, soggezione. La conseguenza è il logorio del corpo e dello spirito. Questo comincia con i bambini del nostro tempo, che un libro definisce “competenti”: quando stanno ancora imparando a camminare è pronto uno zaino di prestazioni che li schiaccerà, dal momento che la loro esperienza e vita emotiva non è capace di sostenerne il peso e usarne il contenuto di per sé valido. Bisognerebbe invece giocare con loro, guardarli giocare, lasciarli crescere al ritmo della vita.
La stanchezza riguarda a pieno titolo la scuola. Vedo tanta stanchezza in tutte le componenti della relazione educativa: stanchi gli insegnanti, stanchi i genitori, stanchi gli studenti, ancora prima di cominciare. E a chi è stanco non rimane spesso che lamentarsi, recriminare, incolpare, abbandonare la tensione e la tenzone. La relazione educativa ridotta a prestazione perde l’ampiezza della sua essenza: portare i soggetti in gioco al possesso di sé, al desiderio di trascendersi, all’apertura al mondo, al perfezionamento reciproco grazie allo scambio gratuito (e non mercenario) di bene che ogni persona porta.
Cosa mi auguro allora per l’anno scolastico incipiente? Un po’ meno di stanchezza per tutti. Ma come ritrovare, ciascuno nel suo ruolo (insegnanti, genitori, ragazzi), una rinnovata gioia di vivere le ore scolastiche, nonostante fatica, fallimenti, difficoltà (più acute in contesti scolastici “periferici”)?
La strada da imboccare, non la soluzione (tutta da costruire strada facendo, altrimenti diventa un’altra prestazione), me la suggeriscono le tante lettere di ragazzi che ricevo. Scelgo due esempi rappresentativi, uno al femminile e uno al maschile.
Una ragazza mi scrive della sua fatica a vivere a casa a motivo della separazione dei genitori: l’assenza del padre e la madre che deve barcamenarsi tra lavoro e doppio ruolo educativo l’hanno portata a diventare invisibile, c’è il corpo ma lei è altrove. A scuola nessun insegnante vede (guarda) la sua difficoltà. I voti peggiorano drasticamente, ma nessuno si chiede dove sia finita la ragazza diligente e appassionata di prima. Fino a che una professoressa, nella pienezza del suo ruolo (guardare l’allievo come soggetto e non soltanto ottenere risultati da un oggetto), le fa una domanda pertinente alla materia, ma lei, assente-presente, non risponde. L’insegnante questa volta però non demorde e aspetta il crollo del muro. In una classe attonita le due si fronteggiano in silenzio per vari minuti. La ragazza racconta che il mondo attorno era sparito, c’erano solo lei costretta a tornare in sé perché guardata e quella professoressa che la guardava, proprio al momento del fallimento della prestazione sulla domanda. La ragazza dopo un quarto d’ora di silenzio ininterrotto è scappata via in bagno, a piangere. Da lì è nato una confidenza, a tu per tu prima, a tre poi (madre, professoressa, ragazza) per affrontare la crisi insieme. Si sta riprendendo dalla sua stanchezza di vivere, tutto a partire da uno sguardo sostenuto con coraggio quasi imbarazzante, che le ha consentito di esserci in tutta la sua fragile incompletezza, che spesso è la completezza che un adolescente può permettersi.