Il recente documento della Congregazione per il culto divino ha riacceso il dibattito su un gesto antico e interpretato in molti modi dalle comunità cristiane dei cinque continenti
La lettera inviata alcuni messi fa ha scoperto il velo su un mare di differenze nella pratica liturgica di tutte le comunità cristiane. Come già raccontato da Aleteia qualche settimana fa il documento inviato dalla Congregazione per il culto divino qualche mese fa agli episcopati di tutto il mondo chiedeva che il “segno della pace”, rito che appartiene al momento dell’Eucarestia nella celebrazione della messa, sia svolto con sobrietà e moderazione, e soprattutto, che si riveda la pratica di accompagnarlo con canti specifici. Questa presa di posizione della Congregazione – accolta con qualche perplessità da alcuni ambienti del mondo cattolico, come racconta Repubblica – ha suggerito a noi di Aleteia di rivolgerci ad un esperto di liturgia e teologia sacramentaria, il prof. Andrea Grillo, docente presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova, per conoscere più a fondo questo rito.
Qual è la storia di questo rito?
Grillo: Intanto bisogna chiarire una cosa che anche dai documenti più recenti non sembra essere molto chiara. Il rito di pace è un’antichissima tradizione ecclesiale che si colloca per lo più nell’ambito dei riti di comunione. È esplicitazione del senso della comunione cristiana, è dono del Signore e in quanto tale non è collocato tra i riti dell’Offertorio, come succede nella tradizione ambrosiana, ma appunto tra i riti di Comunione. Le attestazioni storiche del primo millennio sono molto forti e significative, e dicono anche di una corporeità dell’atto, del bacio di pace che attraversava l’assemblea. Nel Medioevo questo rito tende sempre di più a contrarsi fino a rimanere presente soltanto nella Messa Solenne e a scomparire del tutto dalla messa cosiddetta “letta”, o messa comune. La riforma liturgica del 1970 fa il grande gesto di rimettere strutturalmente il rito della pace, con il “segno”, in ogni messa che viene celebrata. Ed è questa la grande novità, fino ad allora di quel rito non c’era quasi più traccia nel vissuto comune. Talmente recente è la novità, infatti, che ancora qualcuno si stupisce che ad un certo punto ci si baci, o come è più consueto, si dia la mano a chi si avvicina. Ecco, questo gesto si carica di un senso eucaristico, di fare comunione anche nella forma di lasciarsi donare dal Cristo la pace, che si comunica ai vicini. Ovviamente, questa novità ha da un lato sorpreso, quasi scandalizzato. Dall’altro ha entusiasmato, per cui può succedere, come avviene talvolta, che il rito di pace abbia una sua diffusione all’interno dell’assemblea al punto che forse non il presbitero, ma i chierici e i chierichetti, passino tra le panche e quasi diano le mani a tutti.
Qual è la preoccupazione della Chiesa?
Grillo: La preoccupazione da parte dei vertici della Chiesa è da un certo punto di vista quella di voler dare una sorta di attendibilità o prevedibilità del gesto, nel senso che non sia ogni singola comunità che decida, che si faccia in modo appena percettibile, o duri un quarto d’ora e coinvolga tutti. Cioè, si vuole trovare una via media, e questa è la buona intenzione. L’intenzione è un po’ meno condivisibile è aver paura del gesto. Mi pare che l’ultimo documento lasci trasparire una sorta di timore che il gesto si faccia troppo visibile. La cosa secondo me più sorprendente è che nel testo si dica che laddove ci siano problemi il modo per risolverli è non farlo. Questo è molto grave, perché è vero che è possibile cadere in abusi, ma io non definirei un abuso il fatto che siano nati canti associati al gesto di pace. Il ragionamento che leggiamo nel documento è che nella tradizione i canti non ci sono: certo, non ci sono perché non c’era il rito di pace. Ma quando un rito prende la sua evidenza, e il rito ha un’evidenza così massiccia negli ultimi cinquant’anni, è normale che in una Chiesa che pensa a quel che fa nasca l’esigenza di sottolineare quel gesto anche col canto. Ovviamente va controllato, va sincronizzato anche con gli altri canti che gli stanno a fianco, perché non si può cantare l’Agnus Dei insieme al rito di pace. Bisogna trovare il modo di non infarcire il rito di comunione con canti continui. Ma a me sembra che definirlo sic et simpliciter un abuso sia un modo per non capire l’evoluzione degli ultimi cinquant’anni, che è inevitabilmente lenta, che prevede anche sbandate, ma che essendo una novità – come ogni volta accade nella Chiesa – per trovare l’assetto giusto impiega qualche generazione. E noi siamo solo alla seconda.
A volte già accade di trovare sacerdoti che “saltano” il rito della pace?
Gatto: Certo, però, per certi versi questo è un rimedio peggiore del male. È chiaro che c’è un male sintomo di un disagio ecclesiale se il rito di pace diventa rito scomposto che occupa più tempo del rito di comunione. Questo non può essere. Però è altrettanto un errore cancellarlo o viverlo con difficoltà perché i cristiani, essendo tutti figli di un unico Padre e tutti fratelli mangiano un unico pane, bevono un unico calice e possono abbracciarsi, toccarsi la mano, baciarsi, per dire la pace di Cristo. Se non lo fanno, perdono qualcosa. Il documento dice: è già tutto nell’Eucarestia. Sì, è già tutto nell’Eucarestia sacramentale, ma l’Eucarestia diventa un pane, un calice, un certo modo di condividerlo, e diventa anche un certo modo di segnarsi con la pace.
Pensa che questa sia anche la posizione di papa Francesco?
Grillo: No, io penso che questo sia il frutto dell’idea di una Congregazione. Il papa certo controfirma una serie di documenti, ma questo è il frutto di una Congregazione che ha quasi continuamente segnato, dal 2001 ad oggi, una serie di documenti che tendono a resistere alle logiche della riforma liturgica. Questo è un problema che certamente Papa Francesco conosce. Io sono convinto che il Papa come molti vescovi e molta parte del popolo di Dio, non sono per niente sintonizzati su questa logica per cui tu abolisci il canto di pace e così risolvi il problema. No, non è così che si affronta la questione. Ci sono opportunità in cui si deve cantare, altre in cui non si deve cantare, ma la cosa non si può risolvere definendo abuso una prassi nuova della chiesa, perchè qeusto vorrebbe dire mummificare la liturgia.
Non c’è il rischio che questo documento venga percepito come un esempio di “paura della corporeità” nella Chiesa?
Grillo: Non c’è dubbio. Questo è uno dei motivi più seri. È vero che la liturgia comporta una corporeità che ha delle forme di stilizzazione: si mangia, ma è come se non si mangiasse, si beve ma è come se non si bevesse, si dà il segno di pace ma si sa che la pace che conta non è quella segnalata da un gesto eucaristico. E tuttavia, la dimensione sacramentale è costitutivamente corporea, non può aver paura dell’espressione corporea, mentre la logica dell’abuso, così com’è costruita nel documento è una logica che prende le distanze dal gesto.. Se uno va, anche a Roma, in qualche chiesa dove ci sono
messicani, al momento della pace, si sente il rumore delle mani sulle spalle. In certe zone dell’America Latina, e questo papa Francesco lo sa bene, la pace diventa un gesto corretto, spirituale, ma che fa rumore. Questo è parte del patrimonio ecclesiale. Da quando la Chiesa è fatta da cinque continenti darsi la pace è per un africano, per un nordamericano, per un europeo, per un sudamericano un gesto diverso, che però è carico di un senso simbolico forte. Rinunciare a questo significa rinunciare ad una parte della comunione ecclesiale, e rendere la liturgia un luogo dove si applicano norme, piuttosto che un luogo dove si incontrano persone.