Wael Farouq è certo: non è possibile essere un buon musulmano senza riconoscere il cristianesimo
di Paolo Cavallo
Il dolore profondo, inflitto dai guerrieri del Grande Califfato nella povera carne martoriata dei cristiani dell’Iraq, diventa l’occasione di un bene grande. Per tutto il mondo, per chi è cristiano e per i musulmani. Per chi partecipa a un’esperienza di fede e per chi cerca, con tutto se stesso, la via verso il proprio destino buono.
Wael Farouq, visiting professor di lingua araba all’Università Cattolica di Milano, racconta con passione la sua voglia di vivere fino in fondo il suo essere musulmano dentro all’esperienza di amicizia che lo lega ad alcune persone che seguono il carisma del Don Gius.
Farouq partecipa al Meeting proponendo, insieme con i ragazzi del gruppo Swap (Share with all people), una mostra tutta pervasa dal cambiamento nei rapporti tra cristiani e musulmani nato da un incontro, da un confronto carico di stima e di libertà.
Tutto il mondo assiste da settimane alla persecuzione dei cristiani, in particolare in Iraq. E allora, che senso ha una mostra che rischia di essere solo un’utopia?
Penso che ogni cristiano che abbia un amico musulmano si sia accorto che qualche cosa è cambiato, nel loro rapporto. Con semplicità, ma al tempo stesso con la nettezza di una scelta di fede, milioni di musulmani hanno affermato «io sono Nazareno». L’hanno fatto attraverso gli strumenti dei social media, modificando i propri profili Twitter o Facebook. Oppure, solo indossando una croce. O dichiarandosi Nazareni pubblicamente, a scuola, all’università, al lavoro. L’11 settembre del 2001, di fronte alla tragedia delle torri gemelle, milioni di musulmani espressero una condanna totale del terrorismo, ma questo giudizio passò praticamente sotto silenzio. Adesso no, la situazione è cambiata. Ora il mondo islamico, il mondo intero, ha la possibilità di riflettere su questo fatto concreto: la stragrande maggioranza dei musulmani desiderano incontrare i cristiani. Abbiamo bisogno di abbracciarci, ognuno con la nostra fede. Perché se siamo credenti, possiamo costruire un mondo nuovo. La mostra racconta questo: in un abbraccio, in un incontro, c’è una nuova umanità. Non è quindi un’utopia, ma il riconoscimento di qualche cosa che è già accaduto.
Eppure sembra che il terrore e la violenza siano più affascinanti di questo abbraccio. Milioni di seguaci del Grande Califfato vogliono la guerra santa e uccidono cristiani e chi si oppone al grande stato islamico. Allora dov’è la speranza?
Milioni di persone che hanno scelto il terrore come modo di vita, è vero. Ma non sono tutti i musulmani, anzi sono una minoranza. Vivono di terrore perché disprezzano la vita. E non vinceranno la loro guerra proprio perché non è santa, ma è stata maledetta, anche in queste ore, dai grandi leader religiosi musulmani. Le religioni non s’incontrano, ma i credenti possono incontrarsi. Io credo fermamente in questa possibilità e dico con chiarezza che nella religione islamica io non posso essere un buon credente se non riconosco il cristianesimo. Se non ho rispetto per la sacralità delle figure di Gesù e di Maria. E di fronte al terrore, c’è la realtà quotidiana di migliaia di cristiani che scelgono di non salvare la propria vita proclamando l’abiura: Allah è il mio Dio e Maometto è il suo profeta. Se pronunciano quelle poche parole, la loro vita cambia in un attimo: non sono più perseguitati, sono salvi e addirittura sono portati d’esempio. Loro, però, non lo fanno. Quelle poche parole non le pronunciano. E così facendo danno a me, musulmano, e ai miei fratelli l’esempio più vero di che cosa voglia dire vivere un’esperienza di fede.
Il sacrificio di questi cristiani è un valore anche per lei, dunque?