Nella Somalia dilaniata dalla guerra civile, questa ginecologa oggi 67enne ha creato un ospedale dove cura tutti, senza distinzione di clan
Nell’ospedale di Hawa Abdi non esistono i clan. Qui non ci sono le fazioni contrapposte che, negli ultimi 25 anni, hanno dilaniato la sua amata Somalia, gettandola in un baratro infernale da cui non è ancora riemersa. «Nel mio ospedale ci sono solo pazienti», non si stanca di ripetere.
Che si sarebbe opposta alla barbarie fratricida, la dottoressa Abdi lo decise tanti anni fa, quando alla sua clinica di Afgoi, a venti chilometri da Mogadiscio, portarono una ragazza di ventidue anni con un proiettile nel cervello e un altro nel cuore. Sua madre – le dissero – l’aveva uccisa perché il padre di sua figlia faceva parte di un clan che, nel Paese sprofondato nella più cieca violenza, si era trasformato in una fazione avversa. Di quella ragazza Hawa Abdi non conobbe mai nemmeno il nome, ma quel volto a cui non poté far altro che chiudere gli occhi torna spesso a tormentare i suoi ricordi.
È per non restare inerte di fronte al divampare della follia assassina che questa signora nata 67 anni fa in Somalia, laureatasi in medicina grazie a una borsa di studio sovietica in Ucraina e diventata all’inizio degli anni Ottanta una delle prime ginecologhe del suo Paese, ha trasformato la piccola clinica rurale che aveva costruito, a fianco di una fattoria, sul terreno di famiglia a sud di Mogadiscio, in un grande ospedale capace di accogliere quattrocento pazienti e poi in un enorme campo profughi nel quale, negli anni peggiori della guerra civile, hanno trovato rifugio fino a novantamila persone. Una città di fuggiaschi, il “Villaggio di Mama Hawa”, come ormai la dottoressa è conosciuta da tutti, ben oltre i confini della Somalia.
Negli ultimi trent’anni, Hawa Abdi Dhiblawe ha continuato caparbiamente a Tener viva la speranza, come recita il titolo della sua biografia (vedi box), da poco pubblicata da Vallardi. E pensare che la vita non le ha mai risparmiato prove e dolori, a cominciare da quando era solo una bambina e, rimasta orfana di madre, fu data in sposa a dodici anni e subì traumi incancellabili.
Ma la sua tempra fuori dal comune e la ferma convinzione che sarebbe diventata un medico per salvare le tante donne che ancora, in Somalia, rischiavano la vita mettendo al mondo un figlio hanno permesso alla dottoressa Abdi di far fronte a ostacoli e pregiudizi. Come quando – erano gli anni in cui covava il conflitto civile divampato nel 1991 – non esitò a presentarsi al presidente Siad Barre in persona per ottenere il nulla osta necessario a trasformare il suo piccolo ambulatorio in un vero ospedale, dotato di una sala operatoria interna. O quando molti anni dopo, nel maggio del 2010, in quello che era diventato ormai il Villaggio di Mama Hawa, dove nel frattempo era sorta anche una scuola per i ragazzi rifugiati, fecero irruzione i ribelli di Hizbul Islam, uno dei gruppi di estremisti islamici che nel frattempo avevano cominciato a spadroneggiare in Somalia.
«“Vogliamo prenderci questo posto”, dichiararono apertamente. L’idea era che fosse loro diritto, solo perché a capo di tutto c’ero io, una donna», racconta la dottoressa. La quale riuscì a tenere testa, con la sola forza della sua autorevolezza, a chi la minacciava con le armi. Purtroppo, quella non fu l’ultima aggressione da parte dei fondamentalisti: nel febbraio del 2012 fu la volta dei ribelli di al-Shabaab, che rapirono anche molti ragazzi del campo profughi per farne dei baby-combattenti.
In realtà, ciò che molti in questi anni non hanno perdonato a Mama Hawa – la quale ha dovuto far fronte anche a gravi problemi di salute – è proprio la regola ferrea alla base del suo impegno, difficile da comprendere in una società ostaggio della corruzione e frantumata dall’odio tra i clan: «Il solo modo per portare avanti il mio lavoro era di rimanere neutrale e di dare a tutte le vittime della guerra, di qualsiasi clan, tutto il mio cuore e la mia anima», dichiara. Una regola sempre rispettata che spiega come «al centro di quello che viene considerato uno Stato fallito e uno dei più poveri al mondo, possa ancora esistere un’oasi pacifica».