Che fare? Un (piccolo) passo avanti è non chiudersi in una scatola dorata: occorre esserci in mezzo a questo mondo, almeno con la mente
di Maria Teresa Pontara Pederiva
Conservo una foto dei miei figli 16 anni fa: sui loro volti di bambini (3-5-7 anni) un misto di stupore e timore di fronte alle immagini TV che mostravano la partenza delle portaerei inviate dal "loro" presidente Clinton. Una richiesta, quella della scuola americana, di seguire con attenzione gli eventi, che forse poteva sembrare prematura per una famiglia europea, ma che oggi, a distanza, mostra tutta la sua potenzialità.
Perché non si vive, neanche da piccoli, in una bella scatola – magari anche dorata e ovattata per molte (troppe) attenzioni di genitori e nonni – salvo ritrovarsi più avanti spiazzati (se non paralizzati) quando ci si accorge che ciò che si credeva oro si rivela solo calcopirite o quantomeno banalità.
Così, mentre in questi giorni, soprattutto qui negli Stati Uniti, molti ricordano come tutti i presidenti americani dal ’45 in qua abbiano in qualche modo coinvolto il Paese in una o più missioni militari (chiamarle "guerre" non sembra politicamente corretto), mi vien da pensare che, in fin dei conti neanche io ho mai vissuto in periodo di pace. In senso mondiale, perché grazie ai padri fondatori dell’Europa, almeno il nostro continente, nella sua parte occidentale, non ha più conosciuto conflitti sul suo territorio (ma non basta guardare il proprio orto).
Sono nata quando i carrarmati sovietici erano in procinto di invadere Ungheria e Polonia: più di tremila morti ho imparato poi. Ho solo un vago ricordo dai racconti della nonna – stupita che a scuola non ne parlassero – sulla costruzione del Muro di Berlino, una tragedia che mi ha accompagnato negli anni con le notizie che si susseguivano e l’ansia per quanti si recavano oltrecortina. Impresse nella memoria restano invece le immagini dell’assassinio di JF Kennedy che si sovrappongono al disastro del Vajont, quasi un conflitto, annunciato.
Ma quella Fredda guerra lo è stata eccome e pure quella del Vietnam e del Laos che occupavano gran parte dei pensieri di adolescente impegnata nella formazione politica: l’orrore per le troppe vittime, i racconti dai gulag, le missioni aeree contro i civili in estremo Oriente (l’uso indiscriminato dei gas …), la consapevolezza dell’assurdità di scelte destabilizzanti in un periodo che avrebbe dovuto raccogliere i frutti della pace si mescolavano alle riflessioni sul Concilio e l’impegno richiesto ai cristiani, ai laici in particolare.
Ero alle medie all’epoca degli assassini di Martin Luther King e Bob Kennedy e della Primavera di Praga di Alexander Dubček e della durissima repressione sovietica che ne seguì: avevo una compagna di classe, nuotatrice di valore, che era riuscita a rientrare appena in tempo (e di passaggio a Praga nel ’96 coi figli piccoli ho cercato immediatamente il ricordo del sacrificio di Jan Palach, un martire laico per la mia generazione).
Nel frattempo sul pianeta crescevano a dismisura le aree di conflitto: Nigeria (Biafra), Cambogia, Bangladesh, Afghanistan, Irlanda del Nord e ancora Cile, Argentina, Centroamerica, Etiopia-Eritrea-Somalia, Angola e Mozambico, India e Pakistan, Ciad, Darfur … per non parlare degli Anni di Piombo che hanno insanguinato casa nostra spegnendo vite di magistrati, giornalisti, politici. Un orrore che non sembrava aver fine e segnava il quotidiano. E ancora la guerra israelo-palestinese (i 6 giorni del ’67 … il Kippur del ’73 …, quella civile in Libano (il massacro di Shabra e Shatila alla periferia di Beirut), Iran e Iraq, il conflitto per le Falkland-Malvinas.
E si rifletteva senza sosta sulle cause di tanta violenza, sull’insensata corsa agli armamenti, sulle (tante) responsabilità anche del nostro Paese produttore d’armi di eccellenza. Animati dibattiti in parrocchia o al Centro culturale della diocesi sul concetto di guerra giusta in rapporto al Vangelo: cos’era chiesto a noi giovani laici di fronte a quel panorama di violenza dai confini indefiniti?