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Da “re dell’aborto” a leader pro-vita negli USA

Bernard Nathanson – it

© Jorosmtz

Pablo Yurman - Aleteia - pubblicato il 08/08/14

La storia del dottor Bernard Nathanson

Il 31 luglio 1926 nasceva a New York (Stati Uniti) Bernard Nathanson, che come ostetrico sarebbe diventato noto negli anni Settanta come “il re dell’aborto”. È morto nella stessa città il 21 febbraio 2011. Dopo aver supervisionato o praticato direttamente circa 75.000 aborti (il primo fu quello che eliminò suo figlio dopo che la fidanzata era rimasta incinta), ha cambiato radicalmente posizione ed è diventato un leader pro-vita nel suo Paese, con proiezione internazionale.

Questo cambiamento di posizione su un tema tanto polemico come quello della legalizzazione dell’aborto ha presupposto in uno scienziato come Nathanson una grande onestà intellettuale, con se stesso, con i suoi colleghi e con la società in generale, soprattutto quando, come nel suo caso, ha basato sulla scienza medica le ragioni di questo cambiamento. Quello che però la lobby abortista non gli perdonerà mai non è tanto che come medico prima coinvolto in numerosissimi aborti abbia poi cambiato atteggiamento, quanto che dopo essere stato un attivista per la legalizzazione dell’aborto nel suo Paese abbia detto la verità sulle campagne che hanno portato, prima negli Stati Uniti e poi a livello mondiale, a compiere questo passo legislativo.

Gli enormi progressi scientifici nel campo della ginecologia e dell’ostetricia hanno permesso in modo graduale ma inesorabile all’ex professionista convinto della liceità dell’aborto di scoprire un mondo nuovo. Lo stesso Nathanson lo ha espresso in questo modo nel suo libro intitolato “La mano di Dio”: “Erano gli ultrasuoni, che aprivano per la prima volta una finestra sul grembo. Abbiamo iniziato anche a osservare il cuore del feto su monitor elettronici cardiaci fetali. Per la prima volta, ho iniziato a pensare a ciò che stavamo facendo nella clinica [la clinica abortista che dirigeva]. Gli ultrasuoni ci hanno introdotti in un nuovo mondo. Per la prima volta potevamo vedere davvero il feto umano, misurarlo, esaminarlo, e ovviamente creare un legame con lui e amarlo”.

Nel 1974, l’anno successivo a quello della legalizzazione dell’aborto nel suo Paese, anche se, con le sue parole, continuava a realizzare aborti nei casi che secondo la sua coscienza erano eticamente accettabili, scrisse un articolo sul New England Journal of Medicine in cui affermò che “la vita è un fenomeno interdipendente per tutti noi. È uno spettro continuo che inizia nell’utero e finisce con la morte; le bande dello spettro si designano con parole come feto, bebè, bambino, adolescente e adulto. Dobbiamo affrontare con coraggio il fatto che nel processo dell’aborto viene annichilito un tipo speciale di vita umana, e visto che la maggior parte delle gravidanze arriva a termine con successo, l’aborto deve essere visto come l’interruzione di un processo che altrimenti avrebbe generato un cittadino del mondo. Negare questa realtà è il tipo più grossolano di evasione morale”.

La “comunità” scientifica ha reagito con virulenza di fronte all’idolo che aveva cambiato parere, al punto che Nathanson è arrivato a ricevere minacce contro sé e la propria famiglia. Tutto ciò porta necessariamente a chiederci: da che lato sono il dogmatismo e la chiusura mentale quando discutiamo sull’aborto?

Il valore della coerenza professionale

Con grande sincerità, Nathanson ha affermato di aver proseguito “a praticare aborti nel 1976. Realizzavo aborti e portavo dei bambini al mondo, ma le tensioni morali crescevano e diventavano intollerabili. In un piano dell’ospedale assistevamo ai parti, in un altro praticavamo aborti. Visto che il caso Roe vs. Wade non stabiliva alcuna restrizione, potevamo realizzare aborti fino al nono mese, prima dei primi dolori del parto… A metà degli anni Settanta, mentre su un piano stavo iniettando una soluzione salina ipertonica a una donna incinta di 33 settimane, aspettavo su un piano più in basso una partoriente di 33 settimane per cercare di salvare la vita del bambino. Le infermiere hanno pensato lo stesso. Cosa facevamo, stavamo salvando bambini o li stavamo uccidendo?”.

Il suo nome è stato oggetto, come ci si poteva aspettare, da una sorte di cospirazione del silenzio da parte di quanti temono che una testimonianza come quella di questo coraggioso galeno diventi di massa e che trascenda l’aspetto più elementare e semplice del pensiero di Nathanson: che se la gente che opina sul tema vedesse con i propri occhi cos’è da un lato il miracolo dello sviluppo fetale e dall’altro la crudeltà dell’eliminazione fisica del concepito, l’aborto non sarebbe altro che un triste ricordo di un’epoca oscura nella storia dell’umanità.

Nathanson ha riconosciuto che fino a che non ha avuto la possibilità di accedere alle prime immagini dello sviluppo fetale non ha preso piena coscienza di ciò che stava facendo quando effettuava un aborto. Da ciò deriva l’importanza di vedere quello che l’aborto fa nella vita di un bambino, e anche della donna che acconsente a quell’eliminazione. Pretendere di negare quelle immagini suona come malafede in uno dei più freddi dibattiti contemporanei e suscita reminiscenze negazioniste di coloro che tentano di negare le chiare immagini di altri genocidi di epoche recenti.

Forse ha ragione il giornalista spagnolo Eulogio López, per il quale considerando il grado di virulenza e irrazionalità da parte dei gruppi abortisti che pretendono di negare l’ovvio, ovvero che dietro l’eufemismo “interruzione volontaria di gravidanza” c’è la distruzione fisica di una persona umana indifesa, potrebbe accadere con questa pratica ciò che è accaduto ad esempio con la schiavitù. Un giorno gli uomini si prenderanno la testa tra le mani chiedendosi “Come abbiamo potuto giustificare questo?”

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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