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Alabama Monroe. Una storia d’amore finita in tragedia

frame “Alabama Monroe”

© Satine Film

Miguel Cuartero Samperi - pubblicato il 08/08/14

Quando il dolore viene vissuto senza trascendenza porta con sé solo lutto e rabbia

Ho visto questo acclamato film con mia moglie approfittando del sonno serale del nostro piccolo ed è stato un trionfo e una tragedia. Un trionfo perché, appunto, siamo riusciti a vedere un film dopo diversi mesi di astinenza; una tragedia perché ci aspettavamo una storia d’amore, un film leggero e allegro, ma abbiamo trovato una drammatica storia finita in tragedia. Per carità, un bel film, ma alla fine resta qualcosa di irrisolto…

Il titolo, o meglio, il sottotitolo parla chiaro: si tratta di una storia d’amore. La locandina, che ritrae una bellissima ragazza dalla pelle chiara e tatuata, con un eccentrico bikini a stelle e strisce, sdraiata su un pick-up mentre ammicca al macho dalla barba incolta, conferma (e aumenta) l’aspettativa: una bella storia d’amore, romantica e strappalacrime.

Ma le lacrime di Alabama Monroe non sono lacrime di commozione romantica ma di tristezza dovuta alla drammaticità (e crudeltà) della storia, una drammaticità che nel frastornato trailer non appare quasi per nulla… Basta però pensare che un terzo dei protagonisti del film muore in condizioni disperate e sufficientemente ingiuste per prendersela con rabbia.

Alabama Monroe. Una storia d’amore. Di un amore prettamente umano, quello che non dura mai abbastanza. Quello che finisce in continuazione e si sostituisce facilmente cancellando un tatuaggio o sovrapponendone un altro. Quello trasportato dalla musica (bellissima la colonna sonora bluegrass) e dai cocktail (a volte letali). Un amore travolgente, passionale, da sogno. Un amore, però, che inciampa troppo presto, col rischio di capitolare definitivamente, al primo incidente di percorso, una gravidanza non tanto desiderata ma finalmente accettata. Un amore che non riesce in nessun modo a superare la “prova del nove”, l’ostacolo più grande che l’uomo deve affrontare. Davanti alla morte l’amore ammutolisce, la musica scema, il vino finisce. Ancora di più davanti alla morte più atroce che un uomo e una donna possano trovarsi a vivere: quella del frutto del loro amore, quella – ingiusta e incomprensibile – della figlia, piccola ed innocente.

Trovare un senso al dolore e alla morte in una prospettiva puramente razionale e orizzontale è una impresa titanica destinata, il più delle volte, a fallire. Se non c’è un senso al dolore e alla morte forse può sembrare utile trovare dei responsabili con cui prendersela, dei colpevoli da accusare. Come ad esempio i medici, i ritardi della scienza, le religioni (un tutt’uno indefinito e indefinibile) che impediscono i progressi scientifici in nome di leggi morali ottuse e arcaiche, oppure direttamente Dio, a cui il ruolo di capro espiatorio non gli sta poi tanto male… In fondo a Lui non dispiace prendersi le colpe degli altri e non sarebbe la prima volta che lo fa.

Alabama Monroe, una storia d’amore finita male. Non perché ha fatto piangere ripetute volte mia moglie (ah ok, la prima volta era un capello nell’occhio!) e questo ci può stare perché l’amore vuole le lacrime, si innaffia con le lacrime, si lubrifica per girare meglio, con le lacrime. Ma il punto non è questo. La storia d’amore finisce male perché, in fin dei conti, si tratta di un amore (mi perdonino i cinesi, non è cinofobia ma è soltanto per capirci meglio), è un amore made in China, a basso costo, destinato al consumo a breve termine. Non un pezzo originale come quelle cucine made in Italy che ti costano un occhio ma che ti durano una vita o due.

Ciò che resta è l’assenza di senso, la mancanza di speranza, e la domanda se una vita senza senso e senza speranza valga la pena di essere vissuta anche sotto qualche forma di amore avventuroso e romantico. Vicktor Frankl, padre della logoterapia e dell’analisi esistenziale, sopravvissuto ai lager nazisti (se ciò può dargli maggior credito o autorità), ha basato su questa questione tutta la sua riflessione e il suo lavoro intellettuale. Il risultato delle sue indagini è che se non c’è un senso, un significato che indirizzi la propria vita in modo deciso e determinato, l’uomo si troverà avvolto da un sentimento di angoscia che si manifesta spesso in forme di depressione e psicosi.

Il titolo originale del film (The broken circle breakdown) risponde alla domanda di un antico inno religioso inglese:  (Will the circle be unbroken?) che recita più o meno così “Il cerchio può rimanere intatto? Ci aspetta una dimora migliore nel cielo?” La risposta del film (Il collasso del cerchio rotto) è chiara: il cerchio si spezzerà, perché tutto – prima o poI – si spezza e muore, semplicemente muore.

Ad Alabama e a Monroe è mancato qualcosa per avere il coraggio di continuare a vivere. Forse è mancato proprio il senso della loro esistenza. Forse la risposta alla domanda della piccola Maybelle che, in lacrime e con un uccellino morto tra le mani, s’interroga sul senso e sulla speranza: “perché l’uccellino è morto, papà?” e “dove va l’uccellino adesso che è morto?” Il papà non ha una risposta (“dobbiamo semplicemente buttarlo via, nella pattumiera”), ma poi confessa alla moglie la sua intima frustrazione:

E’ stato davvero terribile! Devi provare a spiegare a una bambina perché non si muove quell’uccellino che ha in mano. E’ difficile, sai? Vorresti raccontare (…) che alcune persone credono che l’uccellino abbia un anima immortale, che possa andare perfino in paradiso, che rivedrà  il suo papà e la mamma e che continuerà a volare in eterno, in eterno, in eterno, in un posto dove splende il sole e dove non ci sono finestre… ma papà non crede a queste cose, che papà pensa che tutto muore semplicemente e rimane morto, ma tutto questo non lo puoi dire.

Sarà la bambina, illuminata nell’intimo da un buon genio, che risolverà la questione: “Papà, l’uccellino ora è una stella”.  Al papà, in mancanza di altre risposte non resta che assecondare quella che non è altro che una illusione puerile: “D’accordo piccola se vuoi credere che quell’uccellino ora è una stella va bene così” (della serie: “non è vero ma non fa niente, tanto non c’è soluzione”). La religione diventa così un droga contro il dolore, i credenti dei creduloni, i religiosi dei drogati. Siamo lontani anni luce dalla fede nella risurrezione della carne, l’unica risposta di senso che avrebbe la forza di rimettere in piedi quella promettente storia d’amore iniziata sul pick-up rosso in un bikini a stelle e strisce.

Qui l’originale

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