Perché devono esserci comunione, fedeltà e un camminare nello stesso senso nella Chiesa, anche se bisogna farlo con criterio e responsabilità
L’essere umano ha sempre preteso o voluto essere l’artefice del suo destino, ha ambito ad essere autonomo nella gestione della sua vita e delle sue responsabilità morali, respingendo qualsiasi intromissione nella sua vita; in fondo questa è stata la risposta o l’atteggiamento di fronte alla grande tentazione che ha dato origine al primo peccato, il peccato originale.
Detto in altri termini, l’essere umano crede di non essere creatura di nessuno e non vuole aspettare la sua salvezza da altri, ma da se stesso. Ma questo è un grande errore.
È un errore per due ragioni: da quando nasce, l’essere umano avrà sempre bisogno dell’accoglienza, dell’aiuto e dell’attenzione degli altri.
L’essere umano, inoltre, nasce, cresce e si sviluppa in un contesto in cui ci sono norme, leggi, condizioni che bisogna rispettare, osservare e compiere; in definitiva, a cui bisogna obbedire se si vuole essere parte integrante e costruttiva di una società e, nel caso del cristiano, della Chiesa.
La vita umana scorre tra l’ordine divino, l’ordine sociale e quello razionale. E da sempre, da quando ci sono uomini e angeli, l’obbedienza è stata contestata, e la redenzione ha avuto questo motivo: ristabilire l’obbedienza.
È per questo che le circostanze del momento attuale obbligano il credente a interrogarsi sul significato e sull’attualità della sua obbedienza a Dio nel contesto ecclesiale; a verificare il senso e il valore di quell’obbedienza della quale è imbevuta la sua fede, quella che si chiama l’obbedienza della fede.
Sia nella società che nella Chiesa c’è un ordine istituzionale in cui, per logica, è la persona e solo questa che deve compiere lo sforzo, mediante l’obbedienza, di adattarsi e assimilarsi a favore di una sana vita e di una sana convivenza.
Tutti dobbiamo obbedire: dal papa all’ultimo battezzato, da un Capo di Stato all’ultimo dei cittadini.
L’obbedienza di Gesù
Nelle Sacre Scritture, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ci sono molti riferimenti all’obbedienza, ma il nostro grande punto di riferimento è l’obbedienza di Gesù.
Il Vangelo racconta come Egli, pur se filialmente sottomesso ai genitori (Lc 2,51), fosse totalmente dedito alle cose di suo Padre. Gesù ha mostrato se stesso come esempio di totale obbedienza al Padre: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Jn 6,38).
Ed Egli, a sua volta, è nelle condizioni di salvare chi gli obbedisce: “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”(Heb 5, 8-9).
L’obbedienza alla fede (Rm 1,5) e l’adesione a Cristo (1 Pt 1,2) sono ciò che salva dalle conseguenze della disobbedienza universale che colpisce l’umanità.
Qualsiasi riflessione sul significato dell’obbedienza, sia nell’ambito umano che in quello cristiano, deve partire dalla Kenosis e dall’obbedienza fino alla morte di Cristo:
“il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8).
La Kenosis è quindi lo svuotamento della propria volontà per arrivare ad essere totalmente ricettivi nei confronti della volontà di Dio. Egli ci redime obbedendo (LG 3), e noi riceviamo gli effetti della redenzione obbedendogli.
“A Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede», con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli « il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà »