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Se il figlio diventa un diritto

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Lucetta Scaraffia - L'Osservatore Romano - pubblicato il 05/08/14
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La vicenda del bimbo thailandeseSe si ammette che esista un “diritto al figlio” – di recente introdotto anche in Italia – non possiamo poi stupirci se i genitori che hanno “ordinato” un figlio, affittando l’utero di una donna, lo rifiutino se alla nascita non è sano e perfetto. Infatti, se il figlio diventa un prodotto da acquistare, è ovvio che, come ogni acquisto, deve essere di gradimento della coppia compratrice.

È un po’ strano, quindi, che sui giornali e nel web tutti — anche i sostenitori dell’utero in affitto e dell’inseminazione eterologa — si dichiarino indignati perché una coppia australiana che aveva affittato per undicimila euro l’utero di una povera donna thailandese, Pattaraman Chanbua, già madre di due figli, ha rifiutato uno dei due gemelli nati da questa gravidanza perché si è rivelato essere down, cioè “imperfetto”.

La ricostruzione della vicenda fa capire che qualcosa si era inceppato nello spietato meccanismo di compravendita: la gestante aveva saputo già durante la gravidanza che uno dei due gemellini che portava nell’utero era down ma, nonostante le insistenze dei genitori paganti, si era rifiutata di abortirlo, fedele ai precetti della sua religione, il buddismo. Per lei Gammy — così l’ha chiamato, considerandolo il suo terzo figlio — non era solo un prodotto da consegnare all’acquirente.

Ora tutti si indignano — o fanno mostra di indignarsi — perché il piccolo down è malato e bisognoso di cure costose, che la madre gestante non è in grado di pagare. In realtà, c’è poco da indignarsi: se si accetta la logica del figlio come prodotto, questa è l’ovvia conseguenza. Non si tratta di un caso isolato, infatti.

Tempo fa a Milano dei genitori fecero causa a un ospedale perché la donna, gravida di due gemelli, aveva deciso di abortire quello dei due che era malato, ma nel corso dell’operazione invece era stato eliminato quello sano. Negli Stati Uniti una madre surrogata, cioè che vendeva l’utero, avrebbe dovuto essere sottoposta ad aborto perché il figlio era down, ma si rifiutò di farlo, preferendo tenersi il bambino. E ci sono coppie che affittano l’utero le quali chiedono alla gravida di interrompere la gravidanza perché nel corso di quei mesi si sono lasciati, o hanno cambiato idea. Come se si trattasse di disdire le vacanze al mare o un viaggio.

C’è chi invoca leggi severe in ogni Paese per prevenire questi abbandoni, ma sono leggi che non hanno alcuna possibilità di essere rispettate se si continua a considerare il figlio un prodotto in vendita, se prima non si interviene a condannare lo sfruttamento delle donne presupposto, che è una nuova schiavitù.

Altri addirittura si augurano che l’affitto dell’utero venga permesso — e regolamentato — nei Paesi ricchi dove vivono le coppie sterili, pensando che così ogni “sbaglio” sarebbe evitato, come se bastasse una legge a cambiare il senso profondo di questa pratica e a renderla legittima e innocua. Come se la regolamentazione potesse cancellare che da una parte c’è lo sfruttamento di donne povere, in stato di grave debolezza, dall’altra l’idea che un figlio si possa comprare, come un’automobile, una casa, e quindi dare indietro se non piace più. Almeno il ministro australiano per l’emigrazione, Scott Morrison, ha dichiarato che questa situazione apre problemi gravi e non facili da risolvere.

In questo caso la cultura dello scarto s’intreccia con quella della mercantilizzazione di tutto, anche della vita e del corpo umano, creando una miscela esplosiva. Speriamo che la storia di Gammy susciti non solo indignazione superficiale e passeggera, come il tempo di una colletta in rete per l’intervento al cuore del piccolo abbandonato. Senza riflettere sui meccanismi pericolosi che questa vicenda ha messo in luce.

Qui l'originale