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Sant’Ignazio di Loyola, i gesuiti e le arti

Sant’Ignazio di Loyola, i gesuiti e le arti

© Public Domain

Giulia Spoltore - Aleteia - pubblicato il 31/07/14

Per la festa del fondatore della Compagnia di Gesù scopriamo come si può evangelizzare attraverso le immagini

La persona di S. Ignazio di Loyola non è solo rilevante da un punto di vista spirituale, ma approfondirne la conoscenza significa tentare di comprendere uno dei protagonisti della scena storica europea del Cinquencento.

Ciò che nel 1540 papa Paolo III Farnese riconobbe con la bolla Regimini militantis ecclesiae non fu solo l’ordine dei gesuiti, ma la necessità di accogliere in seno alla Chiesa un movimento complesso, fortemente caratterizzato spiritualmente e con un programma culturale che partiva da un’intensa attività educativa.

Fin dall’Ottocento la critica ha discusso circa l’esistenza di uno stile gesuita. Se mai ci fosse stato uno stile gesuita avremmo potuto riconoscerlo attraverso delle coordinate stilistiche, per questo gli studi ne hanno negato l’esistenza. Tuttavia è innegabile l’impulso che le committenze gesuite diedero all’arte, sin dal nascere dell’ordine, e che divenne determinante già nella seconda metà del XVII secolo (Wittkower Jaffe, 1992). Qui vogliamo far emergere questa rilevanza che ha dato forma a quei riferimenti artistici che furono fondamentali per lo sviluppo dell’arte in tutta Europa tra il XVII e il XVIII secolo.

La teoria: Ignazio, i gesuiti e le arti
Sappiamo come per S. Ignazio fosse importante l’arte per la devozione, questo lo denuncia una piccola galleria d’arte che il fondatore dell’ordine possedeva, appunto, a scopo devozionale. Certo possiamo immaginare che se poco ci è rimasto è perché probabilmente le opere che la componevano non avessero un particolare valore artistico, tuttavia scopriremo che tutta la spiritualità ignaziana è pervasa da una cultura visiva.

Non è un caso se alcuni dei personaggi più eminenti dell’ordine ne terranno conto. Francesco Borgia (1510-1572), generale dell’ordine, fece ampiamente ricorso alle immagini per coadiuvare le sue omelie, tanto che le paragonava alle spezie nelle pietanze capaci di esaltare il gusto. A lui dobbiamo un’evangelizzazione attraverso le immagini attuata per mezzo di tre diverse strategie. In primis si impegnò per la diffusione dell’iconografia dellaSalus Populi Romani (icona cara alla devozione romana che si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma) che fece copiare sotto la supervisione del cardinal Carlo Borromeo e inviò alle missioni orientali per rinforzare il rapporto delle nascenti chiese locali con Roma. Inviò per questo tre artisti entrati nella Compagnia presso le nuove comunità per decorarne gli edifici: Gianbattista Fiammeri (1550 ca.-1617), Giuseppe Valeriano (1542-1596) e Bernardo Bitti (1548-1610), quest’ultimo addirittura fu inviato in Perù. Infine, ispirandosi ad un’intenzione di S. Ignazio, fece preparare una serie di immagini per corredare due testi: le Evangelicae Historiae Imagines (che raggiunsero la Cina e divennero un modello figurativo per tutto il cristianesimo cinese) e le Meditationes Vitae Christi.

Il gesuita e cardinale San Roberto Bellarmino (1542-1621) nelle Disputationes de controversiis christianae fidei (1588) e nel De imaginibus sacris et profanis (1594) difese strenuamente l’impiego delle immagini devozionali contro l’accusa di idolatria mossa dai protestanti ai cattolici. Importante fu l’impulso che il cardinale diede in quegli anni agli studi di angelologia, al suo impegno per la diffusione di questa disciplina, dobbiamo la traboccante presenza di angeli nelle chiese barocche di tutta Europa.

Uno dei più entusiasti sostenitori delle immagini fu il quinto generale dell’ordine, Claudio Acquaviva (in carica dal 1580 al 1615): le sue meditazioni sono infarcite di suggestioni visive, così come in fondo era stata ricca di visioni la vita di S. Ignazio. A lui dobbiamo l’intenso rapporto dei gesuiti con il grande artista fiammingo Pieter Paul Rubens. Infine uno dei più importanti committenti e che fu tramite nel rapporto tra i gesuiti e Gian Lorenzo Bernini fu il predicatore gesuita Gian Paolo Oliva (1600-1681). Il suo rapporto con gli artisti, a partire dalla metà del XVII secolo, da Giovan Battista Gaulli detto il Baciccia, che chiamò da Genova, a Gian Lorenzo Bernini, ai confratelli e pittori padre Andrea Pozzo e Jacques Courtois detto il Borgognone, mutò l’immagine delle chiese gesuite e del barocco romano. Il programma di padre Oliva non solo portò avanti l’originario impegno dei padri per la decorazione dei luoghi di formazione con l’edificazione della chiesa del noviziato di San Silvestro al Quirinale, ma riuscì ad imporre una prospettiva estetica unificata alle opere inaugurate sotto il suo patrocinio, restituendoci oggi un gusto esemplare e omogeneo in questa seconda fase di attività artistica dei gesuiti a Roma.


Dalla teoria alla pratica: le opere d’arte di committenza gesuita
I primi dieci membri dell’ordine gesuita avevano un titolo di studio conseguito presso la prestigiosa università di Parigi e, nella Formula che accompagnò il loro riconoscimento, si vede come questi avessero già elaborato progetti per fornire la migliore formazione possibile ai loro novizi. I padri fondatori stabilirono un elevato livello intellettuale per il loro ordine (Sale, 2003). Questo intento, riconosciuto lo scopo devozionale delle immagini, si realizzò anche in una vasta campagna decorativa che coinvolse i luoghi di formazione gesuiti.

La chiesa di Santo Stefano Rotondo al Celio era stata affidata ai gesuiti del Collegio Germanico-Ungherese, Michele di Loreto, allora rettore del Collegio, fu l’autore del programma iconografico. L’opera fu affidata al pittore Niccolò Circignani (1517/24-1597) che la portò a compimento, coadiuvato da Matteo da Siena (1533-1588), in brevissimo tempo e ad Antonio Tempesta. Nella chiesa di Santo Stefano, per via della sua pianta centrale, con un colpo d’occhio si può osservare tutta la decorazione pittorica dedicata ai primi martiri: lo spettacolo che si palesa allo spettatore è cruento. Questo ciclo, insieme a quello scomparso della basilica di sant’Apollinare a Roma saranno un modello per tutta la pittura. L’importanza di quest’opera fu immediatamente compresa: il cardinal Farnese, uno dei maggiori finanziatori dei gesuiti, l’allora Papa Gregorio XIII e l’intellettuale e iconologo oratoriano Gabriele Paleotti (1522-1597) visitavano spesso Santo Stefano per osservarne l’avanzamento dei lavori. Tanta fu l’attenzione che la Compagnia stampò anche un manuale illustrato.

Ma perché mettere in mostra a dei giovani studenti gesuiti provenienti dal nord questa carneficina ambientata in teatrali e bucolici paesaggi classici? Il motivo risiede nell’acume pastorale di Michele di Loreto: così facendo il rettore si assicurava di ricollegare la Chiesa di Roma alla Chiesa delle origini per intenzioni e testimonianza. Sapeva, Michele di Loreto, che i suoi giovani sarebbero tornati in terre non molto accoglienti per il cattolicesimo e andava forgiando in loro uno spirito di coraggio e testimonianza attraverso le immagini (non è un caso se anche nella cappella dell’English College di San Tommaso da Canterbury lo stesso Circignani riproporrà un’altra serie di martiri, stavolta inglesi). Questo modello si diffuse in Francia e soprattutto in Germania (si pensi alla cattedrale di Hildesheim) ed influenzò anche la decorazione della chiesa di San Vitale a Roma, destinata ai novizi dell’ordine. Anche in questo caso sulle pareti compaiono martìri, ma qui il dato paesaggistico prende il sopravvento e la morte diviene un evento simbolico che va meditato indugiando sulla bellezza del creato. Tutto questo si ricollega sempre al tema principale che è la sequela Christi che, di solito, compare sull’altare maggiore (ad esempio nell’abside di San Vitale, Andrea Commodi è chiamato a dipingere unCristo che sale al Calvario e che implicitamente ci invita a prendere la nostra croce e seguirlo).

L’interesse per un uso emozionale dello spazio, ancora prima degli studi di Lanfranco sulle opere di Correggio e dell’exploit barocco, lo ritroviamo nelTrionfo della Croce di Gaspare Celio nella cappella della Passione (1596) nella chiesa del Gesù di Roma (Spinosa, 1981) che, per stilare una breve genealogia stilistica, Lanfranco citerà nella cappella Sacchetti in San Giovanni dei Fiorentini a Roma (1621-1624) e tra il 1629 e il 1632 nella volta della cappella oggi della Pietà in San Pietro in Vaticano (Pinelli Beltramini, 2000) e che, a sua volta, sarà citato da Carlo Maratti nella cappella Ludovisi in S. Isidoro agricola a Roma a metà del XVII secolo. La croce in scorcio, sollevata dagli angeli nella luce dorata della gloria divina, sarà evidentemente un’iconografia privilegiata, data la sua iconicità, per offrire un pretesto al coinvolgimento del pubblico attraverso l’espediente spaziale. Questo espediente è pensato per la prima volta, probabilmente con il contributo intellettuale del pittore gesuita Giuseppe Valeriano, proprio per la chiesa gesuita più importante già alla fine del Cinquecento.

Questo modo di pensare lo spazio in maniera illusoria risponderà bene alle necessità pastorali, ma anche economiche (si pensi alla “finta cupola” di padre Andrea Pozzo, dipinta nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma che costò molto meno di una cupola edificata) dei gesuiti. Ricordiamo solo di sfuggita, vista la molta bibliografia esistente (Sale, 2003), i due cicli romani gesuiti più importanti della seconda metà del XVII secolo, entrambi orchestrati da padre Gian Paolo Oliva. Per il ciclo della chiesa del Gesù, con la consulenza di Bernini, fu chiamato da Genova Giovan Battista Gaulli (Enggass, 1954), il quale dipinse:La Presentazione in Paradiso dei santi gesuiti nella cupola (1672-75), il Trionfo del nome di Gesù nella volta (1676-1679) e la Visione dell’agnello mistico nell’abside (1680-1685). Una sorta di sermone visivo che spiega la mediazione che Cristo compie entrando nella storia.

Il ciclo della Chiesa di S. Ignazio (1685-1694) vede coinvolto padre Andrea Pozzo (Kerber, 1971) come artefice. Nel Trionfo di Sant’Ignazio il Raggio di luce che attraverso S. Ignazio si diffonde da Cristo alle Quattro Parti del Mondo e dal Fuoco Sacro che simboleggia il ruolo e il nome del fondatore (dal latino ignis) assimila la missione di Ignazio e dei suoi discepoli a quella di Cristo (nei cartigli “Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur”; “Sono venuto a portare il fuoco sulla Terra, e come vorrei fosse acceso” Lc 12, 49). Come emerso sinora il rapporto tra i gesuiti e l’arte fu intenso e spinse gli artisti, per finalità pastorali e spirituali, a riflettere sullo stile, cercando vie nuove per dire la fede, tuttora valide e di straordinario fascino anche per il fedele contemporaneo.

Un aneddoto per Bernini in San Silvestro al Quirinale
Bernini e padre Oliva avevano coltivato una personale e intima amicizia, da questa prospettiva dobbiamo pensare all’intervento di Bernini all’interno dei cantieri gesuiti. Dal 1658 il nostro artista iniziò la costruzione, insieme alla sua equipe, della chiesa dei novizi, San Silvestro al Quirinale della quale abbiamo parlato in un’altra occasione. Mi piace concludere questo articolo citando un documento pubblicato in merito dallo studioso Francis Haskell: “siccome il signor Bernini non ha voluto mai accettare provisione [provvigione] di danaro, così nemmeno si e preteso dal signor Mattia [de’ Rossi] per l’aiuto prestatogli. Al Signor Cavaliere Bernini si sono mandati per atto di gratitudine più regali di quadri di Battaglie del nostro fratello Borgognone, d’oglio, di pane e simili, ma parendogli che avessero specie di pagamento, presto si dichiarò di non volere accettar altro dal Noviziato, se non il pane per la sua bocca, che gli fu dato sino all’ultimo de suoi giorni” [Wittkower Jaffe, 1992]. Bernini decise di prestare gratuitamente la sua opera a servizio dei gesuiti e di quel amico fraterno che fu padre Oliva, un’opera che durò un ventennio, una durata che denuncia un sodalizio, una fedeltà alla causa e una lealtà che ci lascia ancora oggi ammirati e che evidenzia, se mai ce ne fosse ancora bisogno, il ruolo della fede nel percorso artistico di Bernini.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Enggass R., The religious paintings of Giovanni Battista Gaulli, Ann Harbor, 1954.
Kerber B., Andrea Pozzo, Berlin, 1971.
AAVV, Storia dell’arte, parte II, vol. II, tomo I, Torino, 1981.
Wittkower R., Jaffe I. B., Architettura e arte dei gesuiti, Milano, 1992 [New York 1972].
Pinelli A., Beltramini M., La Basilica di San Pietro in Vaticano, Modena, 2000.
Sale G., Ignazio e l’arte dei gesuiti, Milano, 2003.

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