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Il conflitto di Gaza non deve portare a divisioni tra i cristiani

padre Neuhaus

© AIUTO CHIESA CHE SOFFRE

Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 25/07/14

Parla padre David Neuhaus, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica.

«La nostra più grande sfida è evitare che il conflitto in atto a Gaza porti a divisioni tra i cristiani». Così ha dichiarato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre padre David Neuhaus, gesuita e vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica.

«I cristiani di madrelingua ebraica s’identificano pienamente con Israele, mentre i cristiani di lingua araba, si schierano con la parte palestinese». In questi tragici momenti la Chiesa locale è impegnata anche a «ricordare ai fedeli di Gaza e a quelli di Beersheva», dove risiede una delle comunità di cattolici di lingua ebraica, «che sono fratelli nella fede e che nonostante il conflitto devono fare fronte comune».

Padre Neuhaus è certo che l’unico modo per metter fine agli scontri tra Israele e Palestina sia comprendere che la violenza genera soltanto nuova violenza. «Bombardare Gaza riuscirà solo ad aumentare le persone in  cerca di vendetta», afferma il religioso spiegando che il conflitto è alimentato dalla convinzione, tanto israeliana quanto palestinese, di poter vincere usando le armi. «Il governo Netanyahu sembra credere che l’intervento militare produrrà importanti risultati – spiega – così come Hamas continua a sostenere che tramite la violenza riuscirà a mettere Israele in ginocchio».

Il gesuita richiama inoltre al ruolo che ognuna delle due comunità cristiane deve svolgere all’interno della propria società, promuovendo i valori evangelici della giustizia, della pace, del perdono e della riconciliazione. «La Terra Santa ha bisogno di un ecumenismo profetico che unisca i cristiani nonostante i conflitti e permetta loro di farsi promotori di pace all’interno di ognuna delle parti in lotta».

Anche i cristiani occidentali non possono rimanere imparziali, bensì devono prendere le parti di «quanti soffrono perché i governi si rifiutano di dialogare». «Devono schierarsi con i bambini condannati a questa disperazione con chi promuove il dialogo – continua il religioso – Soprattutto devono descrivere obiettivamente la realtà: questo non è un territorio di nemici. È la terra in cui Dio ha piantato ebrei, cristiani e musulmani, israeliani e palestinesi, non per combattersi l’un l’altro, ma per riconoscere che sono fratelli e sorelle».

La comunità cattolica di lingua ebraica è aumentata molto negli ultimi anni a causa dell’afflusso in Israele di molti migranti cattolici provenienti da India, Filippine e da altre nazioni di Africa, America Latina e Europa dell’Est. Oggi nel paese si contano tra i 50mila e i 60mila immigrati cattolici, i cui figli spesso parlano soltanto la lingua ebraica. Una nuova sfida per la Chiesa locale che per la prima volta nella storia ha dei fedeli che non parlano né l’arabo né le principali lingue europee.

Aiuto alla Chiesa che Soffre sostiene da alcuni anni l’opera pastorale del patriarcato latino rivolta a questa comunità in crescita.

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