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Perché su Facebook bandiamo la sofferenza?

Catholic Link - pubblicato il 21/07/14

L'esperienza della sofferenza ci mette di fronte a domande difficili che è più comodo ignorare

Il video di oggi illustra una realtà fin troppo comune. Alla domanda “Cosa pensi?”, pochi rispondono dicendo la verità. I perdenti non sono popolari. La sofferenza non raccoglie “mi piace”, quindi perché non mentire? A che serve condividere certe cose se nessuno vuole sentirle? Sono appena tornato da una missione di tre settimane con un gruppo di giovani italiani in varie regioni del Perù. Oltre a lavorare a un campo di calcio, un parco giochi e case nelle bidonville, abbiamo passato molto tempo con i bambini e gli anziani malati e abbandonati. L’esperienza di stare per la prima volta vicino alla sofferenza altrui è stata molto forte, ed è stata ancora più intensa visto che quasi tutti loro, come il nostro amico del video, in genere ignoravano ed evitavano le proprie esperienze di sofferenza, soprattutto nelle situazioni sociali.

Quando parlavo con loro e quando ci pensavo nei miei momenti di riflessione personale continuavo a chiedermi: cosa dire di fronte alla realtà della sofferenza? Come rispondere? Cosa pensare? Cosa provare? Cosa fare?

Come questo video mostra fin troppo bene, noi tendiamo a ignorare ed evitare tutti i segni che potrebbero portare la nostra attenzione verso la sofferenza presente nella nostra vita e in quella altrui. Ci fa sentire a disagio. A volte possiamo offrire soluzioni, ma altre volte non c’è molto che possiamo fare, per cui preferiamo ignorare il tutto. Clicchiamo sull’icona “Nascondi tutto” non solo su Facebook, ma anche nella nostra vita quotidiana.

Entrare in una stanza in cui si trovano bambini malati o anziani morenti non è facile per nessuno, ma è una realtà fondamentale della nostra vita. Più che la loro fragilità, è la nostra a spaventarci. È per questo che non ne vogliamo sentir parlare dagli altri. “Presto anche noi potremmo aver bisogno di qualche giovane che venga ad aiutarci a mangiare il nostro pasto”, ho detto a uno di loro mentre aiutavamo alcuni anziani nel difficile compito di far fare al cucchiao il viaggio dal piatto alla bocca. “Spero di non finire mai così!”, ha replicato uno con un brivido. Abbiamo qualche scelta?

Cosa dire, quindi? Alcuni potrebbero voler sottolineare la redenzione della sofferenza realizzata da Cristo sulla Croce. È evidentemente vero, ma a volte spiegarlo a un giovane che non è nemmeno sicuro dell’esistenza di Dio può essere un po’ troppo.

La ribellione del cuore

Un punto di partenza è dato dal proprio cuore e dalla propria esperienza. Una ragione per cui tendiamo a nascondere la sofferenza è perché in effetti non c’è molto da dire. Durante il viaggio, ho fatto amicizia con una bambina di nove anni di nome Carla. Lei e il suo fratellino erano stati abbandonati dal padre poco prima. Stare con lei ha fatto sorgere in me delle domande difficili: Che senso ha? Una bambina, nata con un cuore che grida chiedendo amore, soprattutto dal padre; e non avrà mai quell’esperienza. Al contrario, il suo desiderio d’amore è stato trasformato in una profonda ferita di dolore. Come posso comprendere questa contraddizione assurda? E lei comunque mi guarda. Con il suo sguardo, sento che mi chiede: “Perché?”

Se non si è capaci di trovare alcun significato più profondo alla sofferenza che sia coerente, l’unica risposta possibile è il silenzio. Frasi come “Tutto andrà bene” o “Le cose miglioreranno” sono solo stupidi cliché fuorvianti e probabilmente falsi. Non ho il diritto di pronunciarli. Ma restare in silenzio è possibile solo quando sono nel comfort della mia casa e della mia routine. Quando mi trovo davanti a lei, l’oggetto del suo sguardo interrogativo, qualcosa mi spinge a parlare. Qualcosa dal profondo grida: “Parlale! Dalle speranza! Il silenzio non deve avere l’ultima parola! La sua sofferenza è assurda ma non il suo desiderio di essere amata e di amare!”

Parlando con altri, ho constatato che non sono stato l’unico ad avere un’esperienza simile. Sembra che il cuore umano si ribelli di fronte a questo silenzio. Le richieste d’amore lo respingono.

Partendo da questa esperienza, possiamo cercare di percorrere un sentiero esistenziale di domande. Iniziamo chiedendoci perché il nostro cuore risponde così. Cosa c’è dentro di noi che si ribella? Dobbiamo chiederci se forse la sofferenza non è, oltre a un’assenza d’amore, anche un invito che ci viene rivolto a rispondere con amore. E dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo andare alla base delle cose. La natura contraddittoria della sofferenza ci spinge a cercare una risposta che ci trascende. Dobbiamo guardare a Dio, dobbiamo cercare di capire perché permette realtà di questo tipo. Contemplando la Croce, troviamo una risposta inattesa. Vediamo, come dice Paul Claudel, che “Dio non è venuto a eliminare la sofferenza, non è venuto a spiegarla, ma a riempirla della sua presenza”. Vediamo che, anche se per ora dobbiamo sottoporci ad esso, il silenzio non ha l’ultima parola. Alla fine l’amore prevale e regna la gioia.

Questo non elimina la sofferenza che sperimentiamo e continueremo a sperimentare, ma è lì che scopriamo una speranza diversa da qualsiasi altra. Non una speranza immaginaria, ma una che il nostro cuore richiede e sembra annunciare, anche se in modo oscuro, e una speranza che Cristo viene a confermare.

Garrett Johnson27enne statunitense, studia Filosofia presso l’Università Gregoriana di Roma e si sta preparando al sacerdozio.

  [Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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