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Cattolici semplici spettatori del processo politico

Parlamento Italiano

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Giuseppe Savagnone - pubblicato il 10/07/14

L'assenza di comunicazione nel mondo ecclesiale ha prodotto elettori e dirigenti incapaci di perseguire i valori cristiani

Uno dei temi affrontati da mons. Nunzio Galantino, Segretario generale della CEI, nella recente intervista rilasciata alla rivista «Il Regno», è il rapporto tra i cattolici e la politica oggi in Italia. Mons. Galantino ha preso le mosse da una constatazione relativa alla situazione creatasi oggettivamente nel nostro paese nella cosiddetta “Seconda Repubblica”: «Il bipolarismo», egli ha osservato, «così come è stato realizzato sul piano istituzionale e su quello politico, ha finito per produrre l’effetto di due posizioni politiche in cerca del voto cattolico, ciascuna facendosi più o meno utilmente garante di un pacchetto di valori, ma senza integrare dentro la propria prospettiva l’apporto del personalismo cristiano». 

Una diagnosi che spazza via le pretese, avanzate in questi anni dall’una o dall’altra parte politica, di rappresentare i valori cristiani, o sul versante dell’impegno sociale (la sinistra), o su quello dell’etica (la destra). In realtà nessuna delle due si è seriamente confrontata con la dottrina sociale della Chiesa e con la visione dell’uomo e della società che essa propone; tanto meno si è sforzata di dare ad essa quella traduzione in termini politici che l’avrebbe potuta rendere laicamente operativa per costruire la città degli uomini. 

Ma, di questo, proprio i credenti sono stati i primi responsabili. «È mancato», secondo mons. Galantino, «un vero confronto tra i cattolici stessi e tra essi e le altre culture sulle nuove questioni della democrazia: dalle nuove scienze e le loro conseguenze pratiche, alle nuove emergenze sociali. Di fatto il rischio è stato quello di vedere gli stessi cattolici semplicemente dividersi nel momento elettorale, in nome della parte politica scelta, senza mai trovare momenti di convergenza sulle premesse della comune ispirazione ideale». 

Sì, i cattolici sono stati soltanto spettatori e/o strumenti passivi di un processo – che, alla luce dei risultati, non ci sembra esagerato definire involutivo sotto tutti i punti di vista – in cui non sono stati capaci di incidere né culturalmente né praticamente. 

Per due motivi. Il più immediato è stata la loro incapacità di comunicazione reciproca. Un pessimo segno anche sotto il profilo propriamente ecclesiale, che evidenzia il vuoto di dialogo da cui sono dolorosamente caratterizzate le nostre comunità a tutti livelli (parrocchia, diocesi, Chiesa italiana). Il ritualismo ha sostituito il confronto, determinando quel «grande gelo» che Franco Garelli, già nel convegno ecclesiale di Palermo del 1995, denunziava senza mezzi termini. Si sono temute le divisioni e così si sono elusi i conflitti fisiologici, indispensabili per la crescita delle persone e delle comunità. Quale rapporto – tra sposi, tra genitori e figli, perfino con se stessi – può fare a meno del conflitto? I cattolici li hanno esorcizzati in una finta unanimità tra le mura del tempio, per scatenarli poi in tutta la loro virulenza fuori di esse. Coi risultati che vediamo.

Ma il motivo più remoto – e non meno grave – è stato il ritardo culturale del mondo cattolico. Il cardinale Martini diceva che è di duecento anni. Probabilmente non esagerava. In questo bisogna registrare, con rammarico, lo scarso frutto del Progetto culturale, che era nato con il proposito di evitare l’irrilevanza dei cattolici nella sfera pubblica, dopo la fine della loro unità politica. La realtà è stata che la sola convergenza su cui di fatto si è puntato è stata quella di alcune battaglie etiche, dando la precedenza alla logica della mobilitazione su quella dell’approfondimento dei problemi e del franco confronto. Una scorciatoia solo apparentemente più realistica, che ci lascia, alla fine, al punto di partenza. Lavorare a rafforzare le dighe, se non ci si cura di capire le dinamiche dei flussi d’acqua che si accumulano, sempre più minacciosamente, contro di esse, non può portare, alla lunga, se non al crollo delle muraglie che si erano erette. 

La sfida è di evitare la diaspora dei cristiani senza ritornare né alla impossibile unità di un solo partito cattolico (come vorrebbero i nostalgici della DC), né alla falsa unità che viene dalla delega alla gerarchia ecclesiastica (come è avvenuto in sostanza in questi ultimi venti anni). Mons. Galantino forse si riferiva a questo, quando ha aggiunto: «Naturalmente questa possibilità di incontro, che è il contrario della diaspora, poggia sulle competenze di ciascuno, che risponde in prima persona delle proprie scelte e non consente alcuna delega di rappresentanza in bianco. A questa responsabilità dei laici cattolici – che va incoraggiata, rinnovata e nuovamente educata – deve corrispondere una salutare precauzionale presa di distanza diretta dell’istituzione ecclesiastica dal potere politico». Il clericalismo – lo ribadiva in un’altra parte dell’intervista – una patologia della vita ecclesiale!

Prospettive? «Mi auguro che cresca nuovamente la vocazione e la capacità di partecipazione dei cattolici italiani alla vita pubblica in tutte sue forme e dimensioni, attraverso una conoscenza di prima mano della dottrina sociale della Chiesa e con un impegno personale ispirato dalla gratuità, privo di interessi per ritorni personali». 

Educazione capillare alla dottrina sociale della Chiesa, approfondita e attualizzata nel confronto all’interno e all’esterno della comunità cristiana; esperienze di partecipazione attiva, fatte ai laici sotto la propria responsabilità e in stile di assoluta trasparenza. E, come risolto, rifiuto delle facili mobilitazioni, proposte da questo o da quell’improvvisato “difensore dei valori”: «In questo momento, a mio parere», ha detto mons. Galantino, «bisogna vigilare perché lo spazio che si è aperto e il desiderio di partecipazione dei cattolici non vengano coperti e catturati, soprattutto in sede locale, da nuovi faccendieri. Bisogna vigilare su improvvisate e improprie “chiamate alle armi” di gente più nostalgica e frustrata che desiderosa di servire il bene comune». La strada è lunga e difficile. Ma il fallimento di quelle troppo brevi, seguite fino ad ora, dimostra che è la sola percorribile.

Editoriale uscito su «Toscana Oggi», settimanale dei vescovi e delle diocesi della Toscana, il 6 luglio 2014

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