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Nicoletta, una speranza che si rinnova

Pregnant woman

© DR

La nuova Bussola quotidiana - pubblicato il 05/07/14

Una bellissima testimonianza da un Centro di Aiuto alla Vita

di Paola Bonzi

È capitato che mi dicessero: «Ciò che non riesco a capire è come le persone che si rivolgono al vostro Centro di Aiuto alla Vita, non abbiano nemmeno il cibo da mettere nel piatto». Mi è sembrato ovvio rispondere che, se una persona lavora in una piccola azienda e con il suo stipendio deve mantenere il nucleo familiare (pagamento dell’affitto compreso), nel momento in cui la piccola impresa chiude, e attualmente la cosa non è così improbabile, in quella famiglia non entra più nulla del necessario per vivere.

Così era capitato a Nicoletta. Solita mattinata affollata al Centro di Aiuto alla Vita e, come sempre succede in questi casi, solito corridoio pieno di donne, passeggini con relativo bimbo a volte irrequieto, telefoni che squillano. Arriva anche il turno di una giovane donna già madre di un bambino di circa un anno. «Si accomodi! Ora apriamo la porta completamente così possiamo far entrare il passeggino.  Come si chiama questo piccolo?». «Si chiama Andrea, ha dieci mesi ed è un bel birichino!». Andrea osserva tutte le nostre manovre divertito. Ride mettendo in mostra i suoi due dentini inferiori e fa ciao con la manina aperta.   

«Io mi chiamo Paola – dico rivolta alla mamma – e sono molto felice di vedere questo bimbo simpatico. E il suo nome?». «Sono Nicoletta. Ho 25 anni e Andrea che mi impegna molto. Vuole sempre essere intrattenuto e si fa delle grandi  risate. La mia mente, però, non mi lascia libera: sono ancora incinta per una disattenzione e mio marito ha perso il lavoro. Sento di non poter avere questo nuovo bambino e ciò mi fa stare molto male. Non vedo via d’uscita». 

Come sono facili le parole sagge, i moralismi, i giudizi di chi crede di avere sempre la ricetta del buon vivere in tasca! I lucciconi di Nicoletta mi raccontano di una grande sofferenza. «È come se fossi in un tunnel – continua – ma non vedo la luce. Tutto è oscuro e, in questo buio, la mia ansia si ingigantisce». 

La compassione è immensa. Provo un grande dolore per questa donna, ma anche per il suo piccolo bimbo che rischia di non arrivare mai alla luce. Il tunnel menzionato da Nicoletta mi riporta simbolicamente al suo grembo; è buio lì dentro, ma si tratta di un buio confortevole, umido e tiepido che non mette paura, anzi! In quell’oscurità si sta bene, il battito del cuore materno fa compagnia e rassicura. Che com-passione! Aver concepito una vita rimasta nel tunnel di cui non ha potuto trovare l’uscita. Che com-passione per quel fratellino!  Purtroppo, potrebbe avvertire la mancanza di qualcosa che non sa, che non conosce, un segreto con cui fare i conti per la vita. Che com-passione per quel padre! Saprà perdonarsi di non essere stato in grado di tutelare l’esistenza dei suoi familiari? Che com-passione per l’operatore!

In quel colloquio ha misurato tutta la sua pochezza, non essendo riuscito a instillare un piccolo dubbio circa la decisione più positiva da prendere. Mi girano nella testa e nel cuore tutte queste emozioni! Saper sopportare la frustrazione è difficile. La voglia è di fuggire da tutto questo dolore. Poi, con una voce un po’ ansimante:

«Nicoletta, e la sua famiglia?»
«La mia famiglia è lontana.  Abitano a Genova, i miei genitori, e non riesco nemmeno a pensare di potermi confidare con loro».

Ma, un po’ alla volta, mi prendo la briga di provare a dipanare la matassa ingarbugliata. Accenno alla possibilità di un progetto di aiuto: una condivisione a tutto tondo a cominciare dal supporto psicologico e dall’erogazione di un sussidio mensile. Ci guardiamo. Andrea che fino a quel momento è stato perfettamente zitto, tutto intento a giocare con la corda di un trenino che gli abbiamo messo a disposizione per intrattenerlo, si esibisce in una vasta gamma di suoni. Sembrano parole appena abbozzate di incoraggiamento e tra le piccole parole ci sono grandi sorrisi.

Il sole continua nel suo giro, imperturbabile. I suoi raggi driblano l’angolo della costruzione e la stanza ne è tutta illuminata. «Mi accorgo di come è grande la sua condivisione – esclama Nicoletta – mi sento di accettare anche questa sfida della vita».

Finalmente respiriamo! Il progetto che le consegno firmato prevede colloqui a cadenza regolare, appuntamenti che puntualmente vengono rispettati. E il tempo vola. Sono stati fatti dei passi verso la famiglia d’origine, ci si è dati da fare e curricula sono stati sparsi dovunque. Un’offerta di lavoro per Marco: periodo di prova e poi un contratto a tempo indeterminato. Non vivono più a Milano. Per il lavoro di Marco a Savona, si sono dovuti trasferire.

Arriva anche il tempo del parto e una telefonata quasi allegra annuncia che Martina è nata. Madre e figlia stanno benissimo. Il patto, però, era che avremmo continuato a tenere la situazione monitorata erogando, da parte nostra, tutti gli aiuti promessi. Martina ha un mese e mezzo quando Nicoletta viene per il colloquio. Mi racconta del parto e di quei primi tempi, ma lo fa in modo stringato.

«Nicoletta, la sento un po’ in tensione. Mi vuole dire?»
«Ecco, sono contenta di raccontare ciò che abbiamo pensato. Il lavoro di Marco va bene. La casa in cui siamo andati ad abitare non è grande ma ci stiamo. La mia famiglia ora è vicina e il mio papà è andato in pensione. Vengono frequentemente a trovarci per darmi una mano con i bambini e mi aiutano anche concretamente. Sa, papà ha percepito la liquidazione; così ci fanno la spesa e portano ciò che serve ai bambini. Sono contenta».

La guardo intensamente. Sento che c’è dell’altro e la sollecito.
«Va bene!  Con Marco abbiamo pensato che non solo la nostra piccola è nata ma che le cose sono andate a nostro favore. Così abbiamo deciso che non ci servono più i vostri aiuti preziosi. Averceli offerti ha fatto scattare la molla della speranza e ci ha dato coraggio. Ora, però, possiamo fare in altro modo e siamo sicuri che potrebbero far nascere la speranza in qualcun altro, disperato come lo eravamo noi allora».

Non sono riuscita ad andare oltre al “grazie!” perché sentivo le corde vocali annodate. L’ho stretta, però, in un abbraccio grande e forte, pieno di tutta la riconoscenza, la stima, l’affetto che non volevo andassero dispersi.

Qui l’originale

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