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Monsignor Nona: “La mia diocesi non esiste più. Isis me l’ha portata via”

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Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 04/07/14
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La situazione sempre più critica per i cristiani in Iraq
«Ahlan wa sahlan. Benvenuta». L’arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Emil Shimoun Nona accoglie calorosamente una donna visibilmente agitata e la fa accomodare in quello che è ora divenuto il suo ufficio a Tall Kayf, villaggio a tre chilometri a nord di Mosul. Nella notte tra il 9 e il 10 anche il presule ha dovuto abbandonare la seconda città dell’Iraq in seguito all’invasione di alcune aree del paese da parte dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). «Questa donna è appena arrivata qui a piedi da Mosul – spiega l’arcivescovo ad un rappresentante di Aiuto alla Chiesa che Soffre – è scappata con suo figlio in cerca di salvezza».

Il presule racconta ad ACS come la Chiesa abbia accolto tutti coloro che sono fuggiti a causa dell’avanzata di Isis, sia musulmani che cristiani. «È la nostra fede che ci insegna ad aiutare e a prenderci cura di ognuno, senza alcuna distinzione di fede». I rifugiati sono stati alloggiati nelle scuole e negli asili appartenenti alla Chiesa e in alcune case abbandonate. A Tall Kayf sono giunte 700 famiglie, mentre ad Alqosh, villaggio cristiano a venti chilometri da Mosul, sono state accolte 500 famiglie cristiane e 150 musulmane. ACS ha sostenuto l’opera dell’arcidiocesi di monsignor Nona in favore dei rifugiati con un contributo straordinario di 100mila euro.

Habib, sua moglie ed i suoi cinque figli sono stati alloggiati insieme ad altre famiglie in una copisteria che stampa testi religiosi. «Abbiamo lasciato tutto a Mosul – racconta il fedele caldeo ad ACS – siamo riusciti a portare soltanto i vestiti che indossavamo e i nostri documenti. E ora non sappiamo se potremo mai tornare a casa». Un’altra donna con quattro bambini spera di trasferirsi in Occidente appena possibile. «So che non sarà facile ricostruirsi una vita lì, ma almeno so che saremo al sicuro. Non voglio che i miei figli crescano nella paura».

Alcuni vogliono partire, altri non intendono abbandonare il proprio paese. Ad accomunare i cristiani iracheni vi è però l’incertezza sul futuro che li attende. Un sentimento condiviso da monsignor Nona. Oggi oltre tre quarti dei suoi 10mila fedeli sono in fuga. «Non so se saranno in grado di tornare – afferma – La mia diocesi non esiste più. Isis me l’ha portata via».

Nel recente sinodo della Chiesa caldea, che si è svolto ad Erbil anziché a Bagdad a causa dell’attacco di Isis, i vescovi hanno cercato disperatamente risposte a questa nuova crisi. «I rifugiati non rappresentano l’unica emergenza a cui dobbiamo far fronte – spiega monsignor Nona – l’avanzata di Isis ha acuito le tensioni tra sunniti e sciiti, aumentando il senso di insicurezza dei cristiani che ormai hanno perso fede in un loro futuro in questa terra».

Le speranze della Chiesa irachena sono ora riposte nel Kurdistan, la provincia semiautonoma in cui dall’inizio della guerra nel 2003 tanti cristiani hanno trovato rifugio dalla violenza. Ed i vescovi sperano che i propri fedeli fuggiti a causa di Isis possano trovare qui una nuova casa, senza lasciare l’Iraq.