In giornate di nuovo durissime tra Israele e la Palestina una meditazione dell'ex arcivescovo di Milano tenuta a Gerusalemme dieci anni fa, quanto mai attuale
Che cosa direbbe il cardinale Carlo Maria Martini – un uomo che amava profondamente Gerusalemme ed entrambi i popoli che la abitano – su questo nuovo abisso in cui palestinesi e israeliani sembrano sprofondati con le notizie che continuano ad arrivare in queste ore? Mentre me lo chiedevo mi è venuto in mente che esattamente dieci anni fa, all’inizio dell’estate 2004, lo ascoltavo pronunciare un discorso che è forse quello in cui Martini ha condensato nella maniera più chiara le riflessioni maturate nei due anni precedenti, vissuti in una Gerusalemme altrettanto insanguinata. Erano gli anni degli autobus che saltavano per aria e dei carri armati in Cisgiordania e lui li visse nella Città Santa, nel silenzio, nella preghiera e nella condivisione delle sofferenze di tutti. In quel contesto maturò questo discorso su «La via stretta della pace» che tenne al «Cammino ecumenico di pace» promosso dal Consiglio delle Chiese di Milano. Credo possa essere importante riproporlo in queste ore, come antidoto alle troppe reazioni facili in circolazione (G.Ber.)
————
II tema dello «shalom» mi sgomenta per la sua vastità teologica e spirituale. È un tema immenso, denso di significati. Basta pensare ai vari significati che ha la parola «shalom» nella Bibbia ebraica: prosperità – anche fisica – buona salute, benessere, benevolenza, felicità, pace come sintesi di tutte queste cose. Anche se è semplificatorio, tuttavia può essere interessante fare un riferimento alle diversità etimologiche della parola «pace» nelle varie lingue antiche. Sembra che il greco eirenedesignasse soprattutto l’assenza di guerra, mentre il latino pax è lo stare ai patti, l’osservare i trattati; shalom, infine, è la pienezza dei beni, la positività senza limiti. Questo ci fa vedere l’immensità del tema, un tema senza fine ma anche molto logorato perché oggi tutti parlano di pace, tutti vogliono la pace, tutti manifestano per la pace. Ciascuno però a suo modo e possibilmente senza pagarne il prezzo. È un tema che per qualche tempo si vorrebbe persino sospendere dal vocabolario, proprio perché rischia di logorarsi, di inflazionarsi. Io mi limiterò a suggerire qualche seme di riflessione, che sento in modo particolare vivendo in questo paese, a partire dalle situazioni con le quali sono in contatto.
Propongo quindi alcuni brevi pensieri sullo shalom. Anzitutto, una cosa che a me pare ovvia, ma che spesso si dimentica: occorre distinguere tra la pace del mondo – anche in senso buono, pace sociale e politica – e la pace di Gesù. Gesù nel Vangelo di Giovanni (cap. 14) dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non come la da il mondo». C’è una distinzione e bisogna accettarla. Altre volte il Nuovo Testamento ritorna su questa distinzione, per esempio nella seconda lettera a Timoteo (cap. 3): «II Dio della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo» e questa non è la pace del mondo, la quale non è certamente «sempre e in ogni modo», ma è combattuta e continuamente da rifare. Quindi la pace dono di Dio è qualcosa di molto più grande della pace del mondo. E come dice San Paolo ai Filippesi, questa pace di Dio «sorpassa ogni intelligenza», mentre la pace del mondo è a portata dell’intelligenza umana. Quella sorpassa ogni intelligenza ed è quindi dono di Dio, che deve custodire i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù. Dunque questa pace è distinta dalla pace del mondo, è dono di Dio, è frutto della preghiera e può essere data anche in circostanze totalmente avverse. Mi ha colpito molto il colloquio con un giovane padre di famiglia palestinese, che mi diceva: «Se la pace non c’è dentro noi, tutto il resto non conta». Che ci sia la pace nei cuori è dono del Signore. Dobbiamo anzitutto chiederla.