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Che ci fanno i santi Pietro e Paolo al Campidoglio?

Che ci fanno i santi Pietro e Paolo al Campidoglio?

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Giulia Spoltore - Aleteia - pubblicato il 27/06/14

Un dipinto dedicato alla Vergine per una Roma laica sempre memore dei due santi martiri

Pochi sanno che il cuore politico di Roma, il Campidoglio, da sempre terreno del potere civile e laico, è strettamente legato alla memoria e alla devozione dei principi degli apostoli: i santi Pietro e Paolo.

Una cappella per il Palazzo dei Senatori.
La messa a punto strutturale ed estetica del Campidoglio[1] così come lo conosciamo si deve ad un impulso insistente di papa Paolo III Farnese già prima dell’arrivo di Carlo V in visita a Roma (1535). Questo impulso non ebbe riscontro da parte dei senatori e deputati romani se non in anni successivi.

Nel 1575, per libera volontà municipale, i Conservatori di Roma, guidati probabilmente dal gusto artistico del deputato Tommaso de’ Cavalieri, decisero di adibire a cappella un settore finale della controfacciata sopra il nuovo portico dell’architetto Giacomo Della Porta[2].

La cappella al suo interno subì molti restauri a partire dal 1629. Sappiamo che fu decorata tra il 1575 e il 1577 con stucchi e affreschi da due allievi di Daniele Ricciarelli da Volterra: Michele Alberti e Giacomo Rocchetta. I quattro riquadri del soffitto rappresentano: Gesù adorato da S. Pietro, la Conversione di Paolo sulla via di Damasco, la Crocifissione di San Pietro e la Decapitazione di Paolo, questi non sono dipinti di grande qualità (Rocchetta meriterà il severo giudizio di Baglione), ma ci fanno comprendere come sin da subito si pensò ad un complesso iconografico dedicato ai princepes apostolorum.

La pala d’altare, uno straordinario olio su ardesia, con la Vergine incoronata con il Bambino e i Ss. Pietro e Paolo del pittore valtellinese Marcello Venusti[3] ci confermano il desiderio dei Conservatori di dedicare, nel cuore del potere municipale romano, un luogo alla memoria e al culto dei due santi martiri per eccellenza.

Il dipinto, un tempo collocato in un “nichio” (nicchia) affrescato dallo stesso Venusti tra il 1577-1578[4], probabilmente demolito nell’intervento barberiniano del quale ci rimangono le api sul paliotto d’altare, tornato sull’altare originale ci mostra tutta la pietas della pittura controriformata. Marcello Venusti, insieme a Girolamo Siciolante da Sermoneta e più tardi Scipione Pulzone da Gaeta danno una nuova forma all’arte nella Roma post conciliare.

Con il concilio di Trento (1545-1563), ma meglio dovremmo dire “con quella rivoluzione spirituale e liturgica che diede forma, precedette e seguì questo evento storico”, l’arte prese una direzione nuova. Le arti assunsero un aspetto rilevante per la contemplazione e maggiore fu l’attenzione per gli aspetti didascalici e per diminuire la contaminazione tra pittura sacra e pittura profana: in questo Marcello Venusti, che lo storico dell’arte Maurizio Calvesi definì “sacerdote laico della pittura”, fu un maestro.

Chi è Marcello Venusti?
Questo pittore, poco noto al grande pubblico, fu particolarmente legato all’ambiente michelangiolesco. Spesso la storiografia lo ricorda per la copia che dipinse del Giudizio Universale della Cappella Sistina oggi conservata al Museo di Capodimonte e che ci ricorda cosa dovesse essere il Giudizio prima dell’azione censoria per mano di Daniele Ricciarelli da Volterra (da qui soprannominato “il braghettone”), il quale “imbracò” le impudicizie dei personaggi del Giudizio per volontà del collegio cardinalizio. Tuttavia furono molti gli interventi di Marcello Venusti nella Roma del Cinquecento e molti sono giunti fino a noi.[5]

Il dipinto per la cappella del Palazzo dei Conservatori al Campidoglio.
Nella Vergine incoronata con il Bambino e i Ss. Pietro e Paolo lo spazio della rappresentazione è diviso in due parti. Sotto troviamo San Pietro con l’attributo delle chiavi che ci ricorda il suo mandato divino[6] e San Paolo con la spada[7] e dietro a loro si staglia una veduta dall’alto di Roma che è una sorta di compendio degli edifici rilevanti e caratterizzanti l’urbanistica romana del Cinquecento. Questa veduta di Roma ci dice comunque qualcosa: i due santi si trovano in un luogo prominente, probabilmente lo stesso Campidoglio che diviene un luogo in cui il sacro si manifesta. Nella zona superiore del dipinto c’è lo spazio della “visione”: la Vergine che tiene sulle gambe il Bambino benedicente viene incoronata non solo Regina Coeli, ma anche regina di Roma (il culto mariano e delle immagini mariane è attestato a Roma sin dal Medioevo).[8]

Al centro del potere civile romano si manifesta una teologia chiara, fortemente mariologica, in quanto Maria è, visivamente parlando, advocata e madre attraverso la quale presentare le proprie preghiere a Gesù; ma in questo medesimo luogo si riafferma, stranamente per noi che guardiamo oggi, anche un’ecclesiologia chiara fondata sul primato di Pietro in primis e sull’apostolato di Paolo che hanno dato forma a quella Roma che ancora oggi guardiamo, ma che ormai siamo incapaci di leggere.

Quando oggi pensiamo ai luoghi della politica li pensiamo intimamente slegati da qualsiasi tipo di anelito spirituale ed eventualmente solo eredi di luoghi di culto in quanto un tempo dimore papali (si pensi ad esempio alle cappelle al Quirinale). Il Campidoglio con la sua cappella da più di quattrocento anni afferma qualcosa di diverso: la vita quotidiana dei cittadini, quella dei laici (anche di quelli impegnati in politica) ha a che fare con il sacro. Vita attiva e vita contemplativa devono intrecciarsi perché una alimenta l’altra: questo racconta la storia civile di Roma.

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1) Per ulteriore bibliografia e approfondimenti si rimanda a A. Bedon, Il Campidoglio. Storia di un monumento civile nella Roma papale, Milano, 2008.
2) Imprescindibile ci appare tuttora lo studio di P. Pecchiai, Il Campidoglio nel Cinquecento sulla scorta dei documenti, Roma, 1950.
3) Una piccola nota sull’autografia: in alcune durezze del ductus pittorico e nella costruzione un po’ meccanica della pala, molto diversa da quella facilità nel comporre espressa nella Madonna e Bambino e Ss. Pietro e Paolo in Santa Maria sopra Minerva, mi sembra si possa riscontrare l’intervento della bottega e forse del figlio del pittore, Michelangelo Venusti, del quale sappiamo pochissimo, ma del quale ci lascia qualche notizia il Baglione nelle sue Vite.
4) Per alcune precisazioni storiche e note sui restauri si veda S. Capelli, Marcello Venusti: il “nichio” dell’altare della cappella del Palazzo dei Conservatori e una pala del Museo regionale di Messina, in Bollettino dei Musei Comunali di Roma, 2005, pp. 40-50.
5) Con molte riserve indico alcuni testi sul medesimo, ma che tuttora rimangono fondamentali per approcciarsi allo studio di questo pittore. L. Russo, Per Marcello Venusti pittore lombardo, in Bollettino d’arte, 1994; S. Capelli, Marcello Venusti. Un valtellinese pittore a Roma, in Studi di storia dell’arte, 2001. Mentre per rilettura dello del pittore si veda C. Ghibaudi, Marcello Venusti: una "Sacra Famiglia" per Grosotto in Valtellina, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 2013, pp. 153-167.
6) Per un’accurata disamina dell’iconografia petrina si veda M. Gallo, Piedi nudi sulla pietra. Giovanni Baglione l’iconografia penitenziale di San Pietro, Roma, 2013.
7) Per un agile e variegato approccio all’iconografia paolina si suggerisce M. Bona Castellotti (a cura di), Il volto di Saulo. Saggio d’iconografia paolina, Cinisiello Balsamo, 2009.
8) Vedi M. Andaloro, S. Romano, Arte e iconografia a Roma, Milano, 2002.

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