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Luigi Berlinguer: “la libertà di educazione è un diritto non una concessione dello Stato”

A class at Bethlehem Catholic High School – it

© Stephen FLOOD / AP / SIPA

Papaboys 3.0 - pubblicato il 26/06/14

Il ruolo della scuola nel mantenere pluralistica la società

di Matteo Rigamonti 

«Istituire una scuola paritaria in Italia è un diritto e non una facoltà, né tantomeno una concessione statale, come vorrebbe qualche magistrato». Pertanto, lo Stato deve «assicurare a queste scuole la piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quelli delle statali. Che non significa soltanto garantire loro il conseguimento del diploma, del pezzo di carta, ma sostenere tutta l’attività svolta». Così, intervenendo ieri mattina a Roma a un convegno dell’associazione TreeLLLe sul pluralismo della scuola pubblica, l’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, illustre esponente del Pci-Pds-Ds-Pd, ha sottolineato l’importanza di garantire in Italia una reale parità scolastica e la libertà di educazione. Anche attraverso adeguate risorse finanziarie. «L’articolo 33 della Costituzione non è un menù dal quale si può prendere solo quello che pare e piace», ha detto il padre della legge numero 62/2000, che ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio della parità tra scuole pubbliche statali e non statali. E ha aggiunto: «Ci sono fonti a non finire, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che parlano del diritto alla scelta educativa come di una libertà fondamentale. Purtroppo, però, l’Italia è ancora gravata dal fatto che, nel vocabolario della sinistra, la libertà educativa non c’è». Nel nostro paese, ha spiegato Berlinguer, «“pubblico” è ancora inteso come sinonimo di “statale”. Occorre una revisione culturale profonda. Lo dice un figlio dello stalinismo, che, forse, qualche anticorpo nei confronti di eccessi di liberismo l’ha conservato».

C’è bisogno di un«aggiornamento culturale prima ancora che un’azione politica a proposito di cosa effettivamente siano l’istruzione e l’educazione e di come esse stiano rapidamente cambiando», ha proseguito Berlinguer. All’estero questo scatto c’è stato e paesi come l’America e l’Inghilterra si sono inventati le charter school e le academy puntando tutto sull’autonomia scolastica. «È la tendenza delle nazioni più evolute per garantire il pluralismo», ha ammesso Berlinguer.«Da noi invece se ne parla ancora come di una fantasia. Sono stufo di vedere il nostro paese rimanere in coda soltanto perché non vogliamo cambiare». A confermare l’immobilismo italiano sulla scuola è soprattutto un dato, su cui l’Associazione TreeLLLe ha puntato i riflettori: il numero degli iscritti alla scuola paritaria in rapporto al totale degli studenti italiani è in calo dal Dopoguerra, ha raggiunto il 12 per cento e il declino non sembra destinato ad arrestarsi. Il fatto, secondo Rosario Drago, già consigliere del Miur, è da attribuire al protrarsi di una certa interpretazione del comma 4 dell’articolo 33 della Costituzione, il famoso «senza oneri per lo Stato». Una formulazione, «come ebbe a scrivere Crisafulli, “deliberatamente oscura in quanto risultante da uno di quei compromessi insinceri che molte volte si ebbero a verificare in seno alla Costituente”». Non a caso la legge sulla parità, ha ricordato Drago, è ampiamente disattesa, visto che alle scuole paritarie è destinato solo «l’1 per cento dei finanziamenti statali, pari in media a 463 euro per alunno, rispetto al costo effettivo di un alunno della scuola statale, che è pari a 6.800 euro». Per altro la cifra è destinata quasi esclusivamente alle scuole primarie (tra i 500 e i 700 euro per alunno), tanto che il contributo è «irrilevante» per gli istituti secondari, e come se non bastasse, ogni anno deve essere rideciso e rinnovato dai governi, provenendo da diverse e frammentate voci di bilancio dello Stato, cosa che impedisce alle scuole libere – già provate da tasse come Imu e Tares – di progettare il proprio futuro.

Ma non si è parlato solo di parità scolastica. Andrea Ichino, docente di Economia Politica all’European University Institute di Fiesole, è intervenuto per illustrare la sua proposta, elaborata insieme a Guido Tabellini e al Forum delle idee per la crescita, di «liberare la scuola dallo Stato». Si tratta, in sintesi, di avviare in Italia una sperimentazione ispirata appunto al modello delle charter school statunitensi e delle academy inglesi. Una soluzione che consentirebbe ad alcuni istituti di “uscire” dallo Stato, per essere gestite da privati, pur godendo del medesimo livello di finanziamenti pubblici di prima, operando sotto attenta vigilanza da parte dello Stato in quanto a standard di qualità. «Il nodo cruciale – ha detto Ichino – riguarda la gestione dei contratti: i docenti coinvolti, infatti, andrebbero in aspettativa dallo Stato per essere pagati direttamente dalle scuole». Mentre queste ultime, godendo di piena autonomia scolastica e finanziaria, non potranno far pagare rette e dovranno garantire l’ammissione attraverso un sorteggio per evitare che siano scelti solo gli studenti migliori. Fantascienza? Niente affatto, ha spiegato Ichino: «Quando illustriamo questo nostro progetto all’estero, la gente ci chiede dove sia la novità. In altri paesi l’autonomia scolastica è realtà da almeno dieci anni. La notizia, semmai, è che in Italia è difficile perfino far passare questa sperimentazione su scala così piccola e con adesioni volontarie». Del resto cosa c’è da temere «visto che lo Stato, da noi, ha già fallito sulla scuola»?

A confermare la bontà del modello dell’autonomia scolastica – o, come lo ha definito il presidente di TreeLLLe Attilio Oliva, delle «scuole speciali ad autonomia rinforzata» – sono la Francia, l’Olanda, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Per prima cosa, ha riassunto Oliva, all’estero le esperienze di autonomia scolastica hanno numeri decisamente più incoraggianti che in Italia (vedi tabella qui sotto): il 17 per cento degli studenti francesi frequenta scuole a contratto, analoghe alle charter school statunitensi, frequentate a loro volta dal 13 per cento degli studenti, in costante aumento. Così come in aumento sono gli alunni delle academy inglesi, che pure sono già il 26 per cento del totale. Nei Paesi Bassi, infine, il 71 per cento degli studenti frequenta una scuola non statale finanziata con risorse pubbliche. Oltre all’effettiva autonomia finanziaria e didattica, la principale differenza tra questi istituti e le paritarie italiane è la retta. Mentre infatti la famiglia dell’alunno italiano che sceglie una paritaria paga due volte per l’istruzione del figlio (la prima con le tasse, la seconda con la retta) all’estero ciò non succede: charter school, academy e tutti gli altri modelli di autonomia scolastica godono di finanziamenti pubblici equivalenti al costo di un alunno in una scuola statale. Inoltre i finanziamenti pubblici “seguono” lo studente, premiando così le scuole migliori e garantendo una effettiva libertà di scelta.

Al convegno di TreeLLLe tra l’altro è stata smontata anche la bugia secondo cui una reale parità tra scuole statali e scuole libere serva solo a favorire i “figli dei ricchi”. In Inghilterra le academy sono nate come modello per le scuole il cui progetto educativo stava fallendo: il più delle volte si trattava di istituti statali in quartieri disagiati con ragazzi poco inclini alle lezioni teoriche, ma attratti per esempio dallo sport o da altre materie “pratiche”. I laburisti di Tony Blair hanno pensato perciò di concedere loro più autonomia qualora fossero stati in grado di trovare sponsor e rilanciarsi, trasformandosi in fondazioni. L’esperimento ha funzionato ed è stato confermato dal successivo governo conservatore. E le academy sono passate dalle 200 dei primi anni Duemila alle 4 mila attuali. Anche in America le charter school sono state sposate da governi di entrambi i colori: piacciono soprattuto perché, numeri alla mano, dimostrano risultati migliori nell’integrazione di alunni svantaggiati, soprattutto, ispanici, neri, poveri o altro. Da ultimo è intervenuto l’attuale ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, confermando che il governo Renzi adotterà un provvedimento sulla scuola a inizio settembre. «Ci sono ragioni economiche a favore di un sistema plurale della scuola», ha detto Giannini, che ha aggiunto:«Parliamone. Perché se in Italia le scuole non statali dovessero chiudere tutte insieme domani mattina, lo Stato dovrebbe mettere sul piatto 6 miliardi di euro». Motivo per cui occorre trovare una «soluzione diversa» rispetto all’attuale configurazione del finanziamento che destina 57,6 miliardi alle scuole statali e solo 500 milioni a quelle private, che pure offrono un banco a uno studente italiano su nove. 

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