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Aborto, cosa fare se la madre è in pericolo?

British Government Out of Step with 92 of British Women on Abortion Stefan Pasch – it

Stefan Pasch

Novena.it - pubblicato il 26/06/14

Il diritto della madre può prevalere su quello dei nascituri?

Volevo conoscere bene la posizione della Chiesa cattolica sull’ aborto. Quando c’è pericolo di morte per la madre è permesso? In questo caso il diritto della madre prevale su quello dei nascituri?

Risponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia morale

La Comunità cristiana, fin dall’Antichità, ha preso una posizione molto netta contro l’aborto in contrasto con l’uso del mondo pagano nel quale l’aborto era molto frequente, nonostante il divieto di praticare aborti imposto dal famoso giuramento di Ippocrate.

L’aborto è la soppressione di una vita umana nel tempo che va dal concepimento fino a quando il nuovo essere umano non è autonomamente vitale e i Cristiani – lo sappiamo – hanno sempre avvertito una chiamata particolare, connaturale con la loro fede, a prendersi cura delle vite fragili, deboli e indifese. Alla strage di vite non ancora nate ottenuta mediante l’interruzione della gravidanza si è aggiunta negli ultimi trent’anni la distruzione volontaria di migliaia di embrioni concepiti in vitro e ritenuti, per qualche motivo, non perfettamente idonei ad essere trasferiti. L’aborto è la fine di una vita che sorge, comunque sa stata concepita e dovunque si trovi. La riprovazione dell’aborto e delle leggi abortiste da parte della Chiesa è stata costante e sempre ribadita, anche recentemente, in documenti magisteriali di grande valore dottrinale.

Il lettore si chiede se in caso di pericolo di vita della madre il medico possa in buona coscienza scegliere la vita della madre piuttosto che quella del figlio. Diciamo subito che situazioni di vero conflitto materno-fetale – come si dice con brutta espressione – al giorno d’oggi sono molto rare e la medicina moderna riesce a gestire bene situazioni un tempo insolubili. Dobbiamo anche aggiungere che in moltissimi casi il cosiddetto aborto terapeutico è, a ben guardare l’aborto di un feto indesiderato perché portatore di handicap, per esempio un feto Down, e, quindi, la parola terapeutico è molto male usata, visto che qui non si cura proprio nessuno. Altre volte si chiama aborto terapeutico un aborto che non è direttamente voluto e che anzi si cerca di evitare, ma che è connesso con terapie praticate dalla madre per gravi malattie e che – come effetto collaterale – possono provocare danni anche mortali al feto in nessun modo intenzionali.

Esistono, però, situazioni gravi che ancor oggi danno problemi assistenziali come, per esempio, la gravidanza extrauterina, la preeclampsia gravidica e la corioamnionite. In questi casi il medico deve svolgere la sua missione di prendersi cura di ogni vita, di quella della madre e di quella del figlio, senza discriminazioni di valore: non si può sopprimere direttamente una vita innocente per salvarne un’altra. Ci sono, infine, casi estremi nei quali non è più possibile salvare la vita del figlio e solo allora – di fronte alla vera impossibilità di salvare il figlio – ci si preoccuperà doverosamente di salvare almeno la vita della madre. Questo però dipende dalla concretezza della situazione clinica e non certo da una scelta che privilegia una vita rispetto ad un’altra.

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