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Il pane migliore

Bread

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Dimensione Speranza - pubblicato il 18/06/14

Esistono due tipi di spiritualità: una "ricca" e una "povera"

«C'è chi fa il ricco e non ha nulla; c'è chi fa il povero e ha molti beni» (Pr 13, 7).

In un impeto di generosità, un re decise un giorno di regalare parte delle sue ricchezze. Al tempo stesso, tuttavia, voleva sapere che ne sarebbe stato dei suoi doni. Fece pertanto chiamare un fornaio nel quale aveva totale fiducia e gli disse di cuocere due pani: nel primo doveva mettervi dei gioielli, mentre il secondo avrebbe contenuto soltanto acqua e farina.

Poi gli chiese di consegnare i pani all'uomo più devoto e a quello meno devoto che potesse trovare. Il giorno dopo, due uomini si presentarono nel negozio del fornaio. Uno era vestito da pellegrino e sembrava molto devoto, pur essendo in realtà solo un simulatore. L'altro rimase in silenzio e somigliava in tutto e per tutto a un uomo per il quale il fornaio provava una grande avversione. Il fornaio consegnò il pane con i gioielli all'uomo che indossava la veste da pellegrino e l’altro pane al secondo uomo.

Non appena l'ebbe in mano, il falso pellegrino tastò e soppesò il pane: la forma dei gioielli che le sue dita sfioravano gli fece pensare che fossero grumi. Soppesò di nuovo il pane; lo trovò veramente troppo pesante. Allora lanciò un'occhiata al fornaio, ma vedendo che non era tipo col quale poter scherzare, si voltò verso l'altro: «Non ti andrebbe di scambiare il tuo pane con il mio? Sei povero e sembri piuttosto affamato; questo è molto più pesante».

Il secondo uomo acconsentì volentieri allo scambio. Il re che osservava la scena da una fessura della porta, fu sorpreso, ma non percepì le rispettive qualità dei due uomini. Il falso pellegrino ebbe quindi il pane ordinario e il re ne concluse che il destino era intervenuto per preservarlo dall'opulenza. L'uomo povero trovò i gioielli e seppe farne un buon uso, ma il re non fu in grado di interpretare l'accaduto. «Sono stato furbo!» si disse il falso pellegrino. 
(Racconto sufi del maestro Abdullah Ansari di Herat, 1006–1088).

Si può notare una tendenza a contrapporre spiritualità e laicità. Oppure spiritualità ed immanenza. In realtà, riusciamo ad osservare che esistono due tipi di spiritualità. Una spiritualità che possiamo definire ricca ed una spiritualità povera. La prima è fatta di molta razionalità e di grandi idee. Laconoscenza viene prima d’ogni esperienza. Ma si tratta di una conoscenza fondata innanzitutto sulla ragione e restia ad aprirsi al mistero. O, meglio, ritiene di conoscere anche il mistero perché si cimenta a coglierlo razionalmente. È una spiritualità che non si sporca le mani poiché ritiene che la materialità sia, se non malvagia, almeno compromettente. Siamo di fronte ad una spiritualità che ama riempirsi di preghiere, d’immagini, di libri, di conversazioni, perfino di profumi… Potremmo anche dire che è spesso alla ricerca di novità. Ha bisogno di sempre nuovi elementi per far fronte alla propria – non ammessa – aridità interiore. Qui, ci s’innamora delle idee. Ma troviamo anche il rincorrersi di rivelazioni e di apparizioni.

La salvezza è prodotta da una conoscenza. Una gnosi o degli insegnamenti per iniziati che, a volte, si presentano oscuri. Una docta sapientia per persone intransigenti che si rivelano capaci ad ascoltare soltanto se stessi – ossequiosi ed apparentemente umili – ma inabili a mettersi in ascolto degli altri e del mondo.

A ben osservare, siamo di fronte ad una spiritualità se non ambigua sicuramente disincarnata e un po’ troppo tronfia di se stessa. Un’esperienza che rischia d’essere, alla fine, un continuo atto d’orgoglio o di narcisismo camuffato. Si è soddisfatti di quello che si sta sperimentando. Si è portati a vivere, spesso, in un aureo isolamento. Lontani dal mondo e da tutte le sue problematiche. Ci si può permettere di vivere senza partecipare alle preoccupazioni del mondo. Si resta avvolti nell’ambito del sacro e si cerca sempre di definire ciò che è bene ed opportuno per il cammino spirituale e ciò che va evitato. In fondo, siamo di fronte ad una spiritualità rassicurante per la psiche umana. Non c’è bisogno di molto perché la ragione ci anticipa già tutto quello che possiamo trovare anche se, di fatto, viene privilegiata soprattutto l’acquisizione di una buona cultura.

La vediamo adornarsi di molti modelli. Tutti da imitare. Si produce in azioni di archeologia liturgica, teologica o spirituale, non per recuperare ciò che è stato veramente autentico in quelle antiche esperienze, ma per riproporne le forme, gli atteggiamenti, gli aspetti superficiali – tutta presa dalla dimensione estetica – ove il bello viene colto in se stesso e non come strumento umano per avvicinarsi al mondo divino.  Se la bellezza rappresenta sempre un riflesso del mistero di Dio – per speculum et in aenigmate (1Cor 13,12) –, si è qui indotti a fermarsi all’apparenza, all’esteriorità.

I limiti di questa spiritualità stanno proprio nella sua ricchezza, nella sua incapacità ad accogliere a pieno la rivelazione divina che si veste, paradossalmente, della natura umana, apprende il linguaggio umano, si sporca della polvere delle strade, siede a tavola con prostitute e peccatori, conosce il patire e la morte della croce.

Da un punto di vista teologico, questa spiritualità poggia su di un’impronta monofisita. Ha rinunciato a qualcosa di essenziale dell’esperienza cristiana. In nome di una vita che si dichiara tutta dedita a Dio ha abbandonato non soltanto il mondo, ma anche la comprensione del mistero dell’Incarnazione.

C’è pure una spiritualità povera, che non conosce il proprio itinerario in quanto questo si svela soltanto in seguito, come percorso delineato passo dopo passo. Una spiritualità della sequela, che si misura con le fatiche del mondo e s’incarna accanto a quanti sono poveri non per scelta, ma per condizione. Una spiritualità povera di parole – ed anche di preghiere. Spesso le preghiere sono semplici, ripetute nella loro apparente monotonia. Una spiritualità che diffida del linguaggio – ed anche delle immagini. Si nutre di un pane spezzato e di un vino versato. Simboli non soltanto della comunione con il mondo divino, ma anche della condivisione con il mondo umano. Superficialmente appare una sorta di spiritualità poco liturgica e poco religiosa, mentre in realtà essa si allarga verso una liturgia cosmica, una liturgia che abbraccia l’intero universo. Un culto spirituale che offre i propri corpi «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1) e percepisce con una coscienza profonda che ogni azione è partecipazione ad un atto religioso cultuale cosmico. Non ama le piazze né l’appariscenza. Non ama le testimonianze né la visibilità. Si nutre della Parola nel nascondimento e nell'irrilevanza. Spesso, resta nascosta al mondo ed è conosciuta soltanto da Dio. Sta alla larga dalle stanze del potere – che esso sia temporale o ecclesiastico, civile o spirituale. Non per una sorta di fuga di fronte alla responsabilità, ma come deliberata scelta della marginalità.

Si può parlare anche di debolezza e di stoltezza. O di follia. Ma l’apostolo Paolo afferma che qui, nellacroce, si fonda la chiamata cristiana «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1, 25). Una simile stoltezza non porta a considerare se stessi come persone perfette, ma tiene in conto il lato oscuro che alberga in ognuno. Si misura con la dimensione del peccato poiché questa è la condizione iniziale e permanente dell’uomo salvato per grazia.

L’uomo spirituale s’incammina su di una via di spogliazione. La ricerca dell’Unico lo porta progressivamente a lasciare dietro di sé cosa dopo cosa. S’immerge nella notte e nel silenzio. Ilnascondimento diventa il suo abito. Questo processo non comporta l’estraniazione dagli uomini, perché nel tempo produce un incontro che va oltre le parole e si carica di com-passione, di condivisione, di partecipazione. Quest’uomo è accompagnato da una sorta di perenne inquietudine ed insoddisfazione. Conosce un desiderio che resta inappagato. Ma tende sempre ad andare oltre.

Non si lecca i baffi per qualcosa che non ha ancora gustato. Comprende che prima della scienza viene l’esperienza. Non attraverso lo sforzo razionale tenta di giungere a dimostrare l’esistenza di Dio, ma intuisce che soltanto la strada dell’amore può essere percorsa. E l’amore è sempre lacerato da una ferita. Da una grave, amabile ferita.

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