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Sudafrica: Mariannhill, una casa per ricominciare a vivere

Grupo de niños africanos – it

© psdave

Davide Maggiore - Aleteia - pubblicato il 10/06/14

Il centro St. Vincent aiuta minori con situazioni familiari problematiche a reinserirsi nella società

Per i bambini del St. Vincent la differenza di lingua non è un problema. Quando un visitatore arriva al centro che li ospita, nella missione di Mariannhill, poco distante da Durban, capoluogo del KwaZulu-Natal, nel Sudafrica orientale, la loro curiosità è subito evidente. Una macchina fotografica, un paio di occhiali: tutto diventa l’occasione per giocare, come avviene ovunque a chi ha la loro età. Nessuno direbbe, come invece spiega Thembemihle, che “hanno già sperimentato cose che io non credo potranno accadermi in tutta la vita”. Il centro St. Vincent (o la ‘casa’, come viene anche chiamata), infatti, si prende cura di bambini e adolescenti vittime di violenze o abbandono. Thembemihle lavora qui e si occupa della prima accoglienza: è lei a raccontarci brevemente la storia del centro, nato come orfanotrofio nel 1899, per opera di monaci trappisti, e affidato a suore missionarie. Oggi accoglie soprattutto bambini che hanno ancora i genitori – o altri parenti – ma di cui le famiglie non sanno, o a volte non vogliono, prendersi cura.

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La violenza domestica è un problema frequente: in alcune comunità è considerata un modo di imporre la disciplina, e non un abuso. Malgrado gli sforzi del governo, poi, le punizioni corporali, fino ad anni recenti, sono state usate abitualmente anche nelle scuole. A complicare ancora il quadro, intervengono situazioni familiari segnate, spesso, dalla disoccupazione di uno o di entrambi i genitori. “Lavorare con questi bambini ti dà la sensazione di aver realizzato qualcosa – dice però Thembemihle – perché, alla fine, senti di aver fatto, in qualche modo, la differenza nelle loro vite”: agli operatori sociali, infatti, si racconta la propria giornata, si confidano gioie e incertezze. Per questo, prosegue la ragazza, “mi rende contenta riuscire a farli sorridere e sapere che li ho aiutati ad affrontare i loro problemi quotidiani”.

Il tentativo del personale laico (che oggi è la maggioranza) e delle suore è quello di creare un’atmosfera che ricordi il più possibile quella familiare africana. Bambini e bambine vivono a gruppi di 6, 8 o 15 in case separate, ognuna affidata ad un operatore che si cerca di non cambiare, affinché rappresenti un punto di riferimento. Le scuole, invece, sono fuori dalla missione, perché gli ospiti del St. Vincent dovranno, presto o tardi, tornare alla comunità. “Una delle nostre più grandi preoccupazioni – dice a questo proposito Thembemihle – è metterli in grado di essere coinvolti nella società, perché in un ambiente ‘isolato’ come quello di una casa per bambini sono protetti tutto il tempo, ma all’esterno saranno ‘esposti’ sempre, e non lo sanno”: per questo ci si sforza anche di creare una consapevolezza “di ciò che c’è fuori”.

A riconoscere la validità di questo metodo è anche il governo sudafricano, che collabora col centro, affidando a questo minori dalle storie problematiche, come il bambino di due anni trovato in strada, solo, da un abitante di Clermont, township di Durban: la madre lo aveva abbandonato, ed era stato impossibile rintracciare qualsiasi parente. Dopo aver vissuto al St. Vincent per un anno, è stato dato in affido a una coppia individuata dagli stessi operatori sociali e sembra aver superato il trauma dell’abbandono. Un altro ospite della ‘casa’ oggi frequenta il St. Francis College, nota scuola privata della zona: a pagare le spese è una donna che, in passato, aveva vissuto nello stesso centro, e che ha poi avuto successo nel lavoro.

Per i bambini è importante “incontrare persone che sono state qui e poi sono andate – ad esempio – all’università e hanno migliorato la loro vita”, perché rappresentano un incoraggiamento, nota Thembemihle. Ma anche chi viene accolto nella casa può essere un modello. L’operatrice sociale, in particolare, ricorda ragazzi affetti fin dalla nascita da Aids eppure capaci, grazie alle cure, di condurre una vita normale. “Mi hanno insegnato – riconosce – ad avere una mentalità positiva, ad imparare qualcosa da qualsiasi situazione, invece di lasciare che questa determini la tua vita, o ti sconfigga”, perché in fondo “Dio non ti chiede mai più di quanto tu possa fare”.

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