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L’emozione di un faccia a faccia con il Mosè di Michelangelo

Faccia a Faccia con Mosè di Michelangelo

© Public Domain

Rodolfo Papa - pubblicato il 10/06/14

Misurata per la prima volta al mondo l'attività del cervello durante l'osservazione di una statua reale

In questo giorni è stata diffusa la seguente informazione: «Roma, 29 aprile. L'equipe di ricercatori della Sapienza, coordinata da Fabio Babiloni in collaborazione con la spin-off universitaria BrainSigns srl, ha misurato l'emozione e la relativa attività cerebrale dei membri di un gruppo di visitatori durante l'osservazione della scultura del Mosè di Michelangelo. Per la prima volta al mondo è stato possibile registrare e analizzare l'attività del cervello durante l'osservazione di una statua reale e non attraverso la sua riproduzione su uno schermo di laboratorio.  La ricerca ha rivelato come la suggestione dei visitatori del capolavoro di Michelangelo sia molto diversa a seconda del particolare punto di vista di osservazione della statua. In particolare i ricercatori hanno dimostrato che l'emozione provata è massima quando le persone possono guardare direttamente il viso e gli occhi del Mosè, ovvero nella posizione laterale alla Statua; invece nel punto di osservazione frontale, in cui il Mosè non incrocia direttamente lo sguardo dei visitatori, l'emozione misurata è significativamente più bassa. I risultati confermano le osservazioni fatte dallo stesso gruppo di ricerca del dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza, durante l'osservazione di quadri di Tiziano o di Jan Vermeer raffiguranti ritratti oppure soggetti religiosi, esposti un anno fa a Roma presso le Scuderie del Quirinale. Infatti  anche in quell'occasione l'emozione provata dalle persone durante l'osservazione di tali ritratti era molto maggiore di quella provata durante l'osservazione di quadri a contenuto religioso o paesaggistico. E' noto nelle neuroscienze che il viso è una sorgente importante di informazioni per le interazioni sociali con i nostri simili. I risultati ottenuti dallo studio sul Mosè di Michelangelo sono stati inviati al Congresso mondiale di Bioingegneria (IEEE-EMBS) che si terrà a Chicago nel prossimo mese di agosto. I risultati del gruppo della Sapienza sulla percezione delle opere d'arte sono in fase di applicazione anche per gli spazi architettonici di cui è ricco il patrimonio culturale italiano, quali per esempio il Colosseo o i Fori romani o anche la Cappella Sistina. Questi studi aprono nuove strade alla comprensione della capacità del cervello umano di "far sentire" le emozioni in maniera più o meno intensa durante la contemplazione estetica delle opere d'arte, e di come queste siano generate dagli artisti per provocare emozioni nei visitatori. La sperimentazione con il Mosè si è avvalsa del contributo di Cesare Cundari  e Gian Maria Bagordo del Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell'Architettura della Sapienza di Roma»[1].

La prima considerazione che questa notizia suscita è di ordine “quantitativo”, ovvero ci si interroga sulla necessità di ripetere più volte questo tipo di osservazioni e di variare la composizione del pubblico, secondo diversi tipi di istruzione  e diverse provenienze culturali, per verificare se e come la cultura di origine e il grado ed il tipo di istruzione influenzino la visione dell’oggetto artistico.

Da qui deriva una seconda considerazione, proprio connessa al livello di formazione del pubblico che visita una mostra o un museo. Sappiamo per via filosofica che il piacere intellettuale che si prova è direttamente proporzionale alla capacità di comprendere l’oggetto che si ha di fronte. Un musicista molto colto comprenderà meglio uno spartito musicale di Sergej Vasil’evič Rachmaninov e sarà dunque in grado di apprezzare di più  una esecuzione straordinaria e distinguerla da una ordinaria.

L’informazione sopracitata riferisce che alcuni dipinti a soggetto religioso, alcuni paesaggi, alcune parti del Mosè, sono apprezzate di meno; questa informazione proveniente dalle neuroscienze può essere spiegata con il riferimento a un fenomeno contemporaneo raccontato più compiutamente dallo storico britannico Peter Burke, sotto la definizione di iconofobia.[2] L’iconofobia  è di fatto il risultato della modernità, che non tiene in nessun conto le immagini artistiche, il loro significato e il loro valore di testimoni del tempo, a tutto vantaggio di riproduzioni meccaniche della realtà, con il mostruoso sottointeso che le immagini dipinte, le opere d’arte, non siano in grado di narrare la verità perché soggette al solo mondo delle emozioni.[3]

Questo assunto ha causato, nel corso degli ultimi tre secoli, che l’immagine artistica abbia progressivamente perso la sua tridimensionalità narrativa e polisensa e di qui abbia anche perso peso sociale, culturale e perfino politico a tutto vantaggio di realtà direttamente costruite sul sistema della comunicazione emozionale pubblicitaria. Quindi che alcuni o molti visitatori di una mostra alle Scuderie del Quirinale abbiano avuto meno emozioni di fronte a paesaggi e dipinti a soggetto sacro cristiano, non dimostra che questi interessano di meno, ma solo che il pubblico testato non è in grado di comprenderli fino in fondo, cioè di saperli leggere. Se, infatti, ci troviamo dinnanzi ad un codice miniato scritto in caratteri greci, se possiamo accedere a tutti i livelli di comprensione di quel testo, saper comprendere il greco antico, le abbreviazioni, il senso delle miniature e le qualità del miniaturista e perfino comprendere non solo la lingua antica, ma il senso di quel brano squadernato nelle due pagine che abbiamo innanzi agli occhi e per giunta saperlo collocare nello spazio e nel tempo e arrivare a comprendere il livello metalinguistico che il testo espone, allora alla comprensione si aggiungerà la piena fruizione e quindi l’emozione piena, il godimento estatico del testo, altrimenti potremmo solo annuire debolmente al racconto che ci viene offerto da una didascalia, o peggio passare disinteressati ad altro, ignorando il capolavoro esposto davanti al nostro sguardo ottuso.

Il fatto dunque, che i visitatori non provino emozioni molto alte di fronte a dipinti di paesaggi e ad immagini a carattere sacro, non dice molto di più che quello che noi addetti ai lavori sappiamo da molto tempo, cioè che l’iconofobia ha prodotto una analfetizzazione artistica di ritorno di proporzioni colossali: di fatto nessuno sa leggere la lingua dell’arte, i significati espliciti ed impliciti che essa veicola e l’arte sta divenendo una lingua morta, perché praticata solo da alcuni. Di qui si potrebbe immediatamente dire che c’è necessità di rilanciare lo studio dell’arte nelle nostre scuole, di rilanciare lo studio dell’arte presso i nostri seminari e nelle nostre università sia statali che pontificie, perché si possa creare una inversione di tendenza nel recuperare una capacità linguistica indispensabile alla conservazione dei nostri monumenti, e necessaria alla creazione di nuovi.

Nella notizia a carattere scientifico da cui siamo partiti, possiamo infine raccogliere un dato estremamente positivo e cioè che in ogni caso il livello di relazionalità passa attraverso la rappresentazione del volto umano. Questa notizia, che già conoscevamo in campo artistico, antropologico, filosofico, si lega anche in qualche modo al carattere fondamentale della cultura artistica cattolica, ovvero il volto di Cristo come centro ontologico e teologico del sistema d’arte cristiano, ontologico e teologico. L’arte figurativa -così come la intendiamo negli ultimi secoli- è una invenzione cristiana, per meglio dire cattolica, che incentrando tutto il linguaggio artistico sulla rappresentazione del mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo,  ancora oggi attraverso il Volto ha la capacità di comunicare, e anche di emozionare il pubblico.

Concludiamo con un omaggio a Leonardo da Vinci, che cinque secoli fa, ha offerto, per vie diverse, una riflessione molto simile alla conclusione offerta dalla ricerca scientifica di cui si è data notizia. ,a dimostrazione che alcune branche del sapere producono verità trans-disciplinari e meta-disciplinari incontrovertibili, capaci di attingere all’originario dell’uomo.
Nel Libro di pittura di Leonardo, il Codice Urbinate 1270, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, è chiaramente scritto che la rappresentazione di Dio muove più che il solo nome scritto, e che la pittura deve essere vera. La somma di questi due aspetti è per Leonardo la cifra della pittura che, per questa sua capacità di rendere presente, è superiore ad ogni altra arte .[4]

QUI L'ARTICOLO ORIGINALE

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Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail: rodolfo_papa@infinito.it.

[1] http://www.lescienze.it/lanci/2014/04/29/news/sapienza_mos_michelangelo_emozioni_cervello-2118411/
[2] Peter Burke, Testimoni oculari, Il significato storico delle immagini, Carocci editore, Roma, 2002.
[3] Cfr. Rodolfo Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena, 2012.
[4] Cfr. Rodolfo Papa, La “scienza della pittura” di Leonardo. Analisi del “Libro di pittura”, Medusa, Milano 2005, pag. 96.

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