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Oltre la religione? Sentieri pluriformi nel sacro

God the Father 04

© Waiting For The Word / Flickr

Dimensione Speranza - pubblicato il 05/06/14

Se le religioni sono potenzialmente strumentalizzate in nome dell’ideologia, tuttavia il loro potere simbolico ha garantito nella storia umana uno spazio di libertà e di dignità di fronte all’umiliazione, alla disperazione e ad ogni forma di repressione

1. La religione al bivio

Noi stiamo vivendo una fase delicata della storia umana contemporanea. Le forze distruttive del conflitto e della violenza sono riuscite a minacciare l’ordine mondiale, e nessuno, nemmeno l’unica superpotenza, è più al sicuro. Molto preoccupante è il ruolo della religione in questa situazione. Ci stiamo chiedendo perché da ambienti e motivazioni religiose possa avvenire una simile violenza disumana. Come sia possibile che le religioni contribuiscano addirittura ad alimentare delle tensioni e a suscitare delle violenze? Tuttora, pensando al Medioriente, ai Balcani, all’Irlanda del Nord e a molte parti del mondo, sembra che religione e violenza vadano insieme.

Dall’11 settembre 2001 in poi abbiamo assistito a due fenomeni paralleli. Da un lato, la strumentalizzazione della religione operata negli eventi degli attentati alle Torre gemelle e nella politica dell’amministrazione Bush, che ha replicato identificando l’Occidente con un cristianesimo ideologico, quello dei neo-conservatori americani. Dall’altro, c’è l’impegno perché si eviti che le religioni divengano strumento di ideologie, e la situazione attuale degeneri in un conflitto tra di loro. Questa preoccupazione era già emersa durante il Giubileo del 2000 quando ci fu la domanda di perdono da parte dei cattolici romani per le violenze del passato. Per la prima volta, i fatti storici sono stati riconosciuti pubblicamente. L’invito a prendere coscienza delle motivazioni religiose che hanno ispirato la violenza, e quindi a pentirsene, ha dato occasione alla Chiesa di riproporre per se stessa un agire più conforme all’evangelo, e quindi antitetico a quello del potere e della violenza della politica.

Gli incontri tra le grandi religioni ad Assisi, in particolare quello del gennaio 2002, hanno simbolicamente dissociato dalla violenza e dalla guerra ogni religione lì rappresentata, e le hanno sfidate a ritrovare in sé le risorse per neutralizzare l’inclinazione alla violenza. E’ stato chiesto ad ogni religione di avviare un contributo alla concordia e alla tolleranza, partendo dal proprio patrimonio fondamentale. Più che mai siamo davanti alla sfida di accogliere l’elemento sapienziale in ogni religione, che non cerca la negazione dell’altro ma gli fa posto, lasciando essere nell’altro quello che è.

Se le religioni sono potenzialmente strumentalizzate in nome dell’ideologia, nello stesso tempo bisogna riconoscere loro un potere simbolico che ha garantito nella storia umana uno spazio di libertà e di dignità di fronte all’umiliazione, alla disperazione e ad ogni forma di repressione. Si pensi alla resistenza pacifica ed eroica guidata da Martin Luther King, che mirava ad ottenere per i neri americani i diritti umani, incluso il diritto democratico della cittadinanza. Si pensi agli estremisti islamici, per i quali la povertà si trasforma in semplicità e austerità religiosa, mentre la fede garantisce un senso di sicurezza culturale, e più importante ancora assicura, pure nel loro caso, una ragione per tenere la schiena dritta fra umiliazioni e tentazioni continue, derivate anche dallo sfruttamento del mondo musulmano da parte dell’occidente. Secondo Anatol Lieven (ricercatore presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra e il Carnegie Endowment for International Peace di Washington) «nel mondo chiassoso, maleodorante e violento delle moderne città musulmane, l’architettura e l’estetica della moschea sono l’unica oasi, non solo di bellezza ma di una cultura ordinata e coerente, che fornisce una guida per vivere. Ovviamente tutto questo è dieci volte più vero per un giovane maschio che vive in un campo profughi afghano, ceceno o palestinese». La religione è la forza dei deboli e degli oppressi, anzi Dio stesso, secondo san Paolo, sta dalla parte del disprezzato e di ciò che è reputato nulla.

Ma se è vero che, proprio a questo punto, si può identificare troppo facilmente la causa dell’uomo con la causa di Dio, per cui la religione comincia a giocare un ruolo sociale e politico ambiguo, rischiando quindi di mettersi al servizio delle passioni umane che hanno il volto del terrore, è altrettanto vero che la religione rimane una risorsa simbolica potentissima nella lotta contro l’ingiustizia e la disperazione. Non ci deve sorprendere, quindi, che molte persone abbiano ripiegato sull’islam rivoluzionario e sui suoi leaders, come ultima risorsa quando tutto il resto è fallito

2. Oltre la religione?

Questi ultimi anni sono testimoni del ruolo preponderante delle grandi religioni, mentre si riafferma in varie forme la sensibilità religiosa nelle società occidentali, compresa anche la non indifferente presenza musulmana in Europa. E si è pure assistito al tentativo di ricuperare la valenza pubblica delle grandi religioni a livello nazionale e mondiale, esponendole comunque, come abbiamo notato, al pericolo della strumentalizzazione per motivi ideologici ovvero della rivendicazione identitaria.

La rinnovata sensibilità religiosa, dunque, manifesta due processi compresenti. Nello stesso tempo si è verificata una svolta epocale nel senso di una richiesta ad andar oltre l’espressione istituzionale della religione, oltre la religione-di-chiesa. Secondo il teologo domenicano Claude Geffré (professore emerito dell’Institut Catholique di Parigi) la cifra del mondo in cui viviamo non è tanto la molteplicità delle religioni di tipo sincretistico o esoterico che passa sotto l’etichetta New Age, quanto la pluralità delle grandi religioni non cristiane, conosciute sempre meglio e presenti come stimolo in un’età planetaria, in un tempo in cui l’umanità, posta davanti alla possibilità di distruzione dell’uomo e dell’ambiente, scopre che il futuro sta nelle sue mani1. Un segno del risveglio del senso religioso, quindi, si rende presente nell’attuale dibattito nella società pluralista come attenzione positiva da parte di laici non credenti, laddove le problematiche legate al futuro dell’uomo e alla convivenza umana sollecitano una ricerca di valori comuni e condivisi, anche attingendo al patrimonio etico-religioso. Per contro, si afferma una «religione diffusa», non istituzionale, una specie di spiritualità che non nega Dio e che, con una diversa comprensione di Dio, si esprime quale diffusione di valori. Un tale risveglio è legato al rifiuto di un obsoleto esclusivismo mostrato dalla Chiesa, anche perché, secondo Marco Gallizioli (dell’Istituto di Scienze Religiose Italo Mancini di Urbino) «è divenuto quasi impossibile riconoscersi nei grandi e altisonanti discorsi, nelle fiaccole e nelle processioni, perfino nelle liturgie spesso stanche e distratte…»2.

Già Jung notava che la civiltà moderna, nel suo aspetto «razionale» cioè nichilistico nel senso negativo del termine – l’abbandono dei modi poetici di percezione dell’esistenza a favore del metodo sperimentale delle scienze -, ha distrutto la capacità dell’uomo di rispondere ai simboli che evocano timore reverenziale. Le guide spirituali, inoltre, si sono preoccupate più della protezione delle loro istituzioni che della comprensione del ruolo dei simboli nella trasmissione del mistero: «Abbiamo completamente spogliato tutte le cose del loro mistero e della loro capacità di evocare timore, reverenziale; non c’è più nulla che sia sacro» .

Il teologo Anton Houtepen ha fatto un’osservazione simile: «I racconti e le figure della narrazione biblica, Dio e le visioni di Dio, i valori provati, i precetti e gli ideali che vengono derivati dalla determinazione ultima dell’uomo che ritorna a Dio, scompaiono dall’universo simbolico dell’europeo moderno»4. Questo è l’atteggiamento di chi, inserito nella società secolare, non accetta la visione di un cosmo sacrale, o di chi vive una apertura al religioso ma solo con antidoto al processo di secolarizzazione, che pure è una su modalità di espressione 5. Si tratta di un interesse post-cristiano e pluriforme per la religione assimilabile al fenomeno delle «religioni di desiderio», che sono le «passioni d’attesa rivolte a beni e a soddisfazioni immaginate nel futuro espressione della brama insaziabile di possesso propria del genere umano 6. Di questo pericolo già avvertito dai Greci non siamo più consapevoli. Mentre l’uomo crede di esser ormai liberato delle superstizioni, il fatto che questo processo gli abbia tolto i punti di riferimento spirituali, secondo Jung, lo lascia ancora più vulnerabile all’azione dell’inconscio e dei suoi istinti.

Nell’omelia di inaugurazione del suo pontificato, il 2 aprile 2005, Benedetto XVI si trova davanti ai suoi occhi questa umanità vista come una «pecorella smarrita», inseguita da Cristo, la quale «nel deserto non trova più la strada». Siamo nel deserto della «oscurità di Dio», «un deserto della povertà, della fame e della sete…, il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto».

In un’intervista concessa a «La Repubblica» il 19 novembre 2004, l’allora card. Ratzinger affermava che «il cristianesimo ha difficoltà a farsi capire nel mondo odierno, specialmente in quello occidentale: americano ed europeo» in quanto «Dio è molto emarginato». Ne deriva, per lui, che «dobbiamo, senza dubbio, fare il possibile per tradurre questo sistema concettuale in modo che emerga la vera essenza del cristianesimo…».

La crisi di rilevanza del cristianesimo nel mondo ricco e nella cultura occidentale ha senza dubbio a che vedere con l’oblio della Bibbia e con l’estraneità dell’esperienza di Dio che essa racconta. Tuttavia, se nel contesto segnato dai processi della secolarizzazione propri della modernità, la dimensione dell’indifferenza permane e si esprime come alienazione dalle forme storiche del cristianesimo, persino all’interno della medesima proposta religiosa si presenta un altro tipo di indifferenza, ciò che Adriano Fabris (dell’Istituto trentino di cultura) indica come lo svuotamento della parola che ha prodotto una resistenza all’ascolto, per effetto del dominio di un linguaggio «incapace di dire altro da sé, nell’epoca – secondo lui – del nichilismo compiuto» 7. E sembra che nemmeno il papa attuale come il suo predecessore voglia attribuire questa situazione soltanto alla modernità. Entrambi  hanno rivolto lo sguardo verso la Chiesa. Nelle meditazioni penitenziali della Via crucis al Colosseo del Venerdì santo 2005, veniva chiesto:

«Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui!Quantevolte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa… Quanta superbia, quanta autosufficienza!… Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci… Spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti… Abbi pietà della tua Chiesa…» (Nona stazione, corsivo mio).

Nel 2000 Giovanni Paolo II chiese perdono al mondo per gli errori della Chiesa, confessando pubblicamente le sue colpe nel servizio della verità. Il riconoscimento dei torti nei confronti, per esempio, di Copernico e Galileo ha messo in rilievo una domanda fondamentale: quale verità va difesa? Si può conoscere e possedere la verità tutta intera? La crisi di rilevanza del cristianesimo mette in luce, per contrasto, il modo in cui la Chiesa ha difeso, e tuttora difende, ciò che essa stessa dichiara essere la verità, ponendo in tal modo in discussione il concetto stesso. Il teologo domenicano Alessandro Cortesi scrive: «C’è infatti un modo di concepire la verità in senso assolutistico: in esso la pretesa di assolutezza e la contraddizione porta a non riconoscere verità diverse, a considerare altre verità degradate o neutralizzarle come anticipazioni della verità che una certa forma di teologia ritiene di avere in monopolio»8. Lo strumento del pensiero, la capacità di accogliere il contributo della scienza, della psicologia, delle scienze umane in genere, è l’arma più forte dell’uomo moderno. Perciò egli chiede se non si debba riconoscere umilmente che la verità è per tutti velata, che fondamenti assoluti e pretesa infallibilità rendono difficile il dialogo, perché implicano un atteggiamento intrinsecamente intollerante e chiuso.

Questa situazione, nel suo aspetto di crisi dell’ethos e della complessità, sfugge alle semplificazioni e alle definizioni chiare. Comunque, si potrebbe dire che nell’epoca moderna si è fatta strada l’esperienza che l’uomo possa essere uomo senza Chiesa e senza Dio. L’uomo sembra non trovare più né nella religione-di-Chiesa né in Dio il criterio e il fondamento della realtà, del proprio pensare ed agire, ma si autocomprende, e comprende il mondo, a partire da se stesso. E’ quello che Eberhard Jüngel chiama la non-necessità di Dio per il mondo nel famoso Dio, mistero del mondo. Questa situazione assume l’aspetto di un nichilismo inteso in senso negativo, secondo la definizione di Massimo Cacciari: tutto ciò che non è ente-cosa, tutto ciò che non rientra nel sensibile, nel toccabile (a maggior ragione nel visibile luccicante e spettacolare), tutto ciò che esula dal concreto, dal calcolabile, dal tecnico e dall’economico, tutto questo è «nulla», privo di qualsiasi valore. E’ l’eclissi del mistero e del sacro.

3. « Un abisso chiama l’abisso!»

In terra straniera, presso il monte Ermon e l’ignoto monte Mizar, il salmista identifica se stesso con la cerva giunta ad un torrente secco, che lancia al cielo il suo grido: Dov’è il tuo Dio?… Di te mi ricordo dal monte Mizar. Un abisso chiama l’abisso… (Sal 42 [41]). In un silenzio assoluto, la cerva assetata urla, si lamenta per la sete e per il torrente asciutto. Come se la sete, l’anelito che spinge la creatura, non potesse pretendere di essere ripagato nella sua ricerca. La vita è quindi una lotta disperata contro una natura indifferente se non omicida. Alla fine della corsa si scopre solo un torrente senz’acqua. L’abisso di una sete destinata ad essere insaziabile richiama un altro abisso più radicale, il vuoto tangibile dell’assenza di Dio. Spinto dai suoi aneliti, dai suoi stupori, dalle sue ansie esistenziali, dai suoi bisogni, l’essere umano cerca. Per trovare che cosa? Per trovare se stesso? Per trovare dove si cela un Dio, se un Dio esiste? Sfidando l’ignoto l’uomo si trova ineluttabilmente posto davanti a se stesso. E’ lì che scopre se l’uscita della sua ricerca è un vincere o un perdere, un vivere o un morire, un vivere che ha un senso, o soltanto un sopravvivere.

Nel 1985 due alpinisti britannici, Joe Simpson e Sim Yates, si trovano sulla cordigliera andina Huayhuash con l’obiettivo di salire alla Siula Grande, quasi settemila metri lungo l’inviolata parete ovest.

Ero solo in un luogo selvaggio e deserto. Sono le parole che un uomo rivolge al silenzio e alla solitudine che lo circondano, mentre trascina il suo corpo devastato, ancora nel cuore di un’incredibile vicenda vissuta e raccontata in modo magistrale da Kevin MacDonald, regista del film-documentarioLa morte sospesa (2003), uscito in Italia nel 2005 e tratto da una storia vera, basata sul libro autobiografico Touching the Void (tradotto col titolo Toccando il vuoto nella collana «I Licheni», Cda&Vivalda Editori, 2005), che è stato scritto da Joe Simpson per riabilitare la figura dell’amico Simon, messo all’indice dalla comunità degli scalatori a causa del gesto che aveva compiuto.

Solo qualche giorno prima del disastro, quel giovane alpinista allo stremo guardava con molta fiducia all’impresa di sfidare l’ignoto, quella che si apprestava a compiere insieme al compagno di scalata Simon: raggiungere, appunto, la vetta della Siula Grande, un’impresa mai riuscita a nessuno prima di loro. Questa montagna impervia della catena delle Ande peruviane, corazzata di ghiaccio e di silenzio, con la sua bellezza altera e siderale, è l’«oggetto del desiderio» dei due scalatori inglesi che le lanciano una sfida ai limiti dell’impossibile. Entrambi posseggono esperienza e tecnica sufficienti per portare a termine la spedizione. Sono consapevoli dei rischi che corrono. Nel paesaggio maestoso e al contempo minaccioso delle Ande, ciò che maggiormente li inquieta sono le particolari condizioni climatiche, così diverse rispetto a quelle a cui sono abituati sulle Alpi. Ma la comune ambizione di sfidare ancora un limite che li lega nell’amicizia non fa che rafforzare l’ottimismo e la fiducia nelle loro capacità.

L’ascesa fino alla vetta, anche se le difficoltà non sono poche, si rivela abbastanza agevole, come se la montagna li accogliesse su di sé e si lasciasse benevolmente scalare. raggiunta dunque la cima, pensano che ormai il peggio sia passato, anche se sono ben consapevoli che la conquista può dirsi compiuta solo dopo la discesa quando, secondo le statistiche degli alpinisti, accade l’ottanta per cento degli incidenti. Ed è proprio nella fase della discesa che i protagonisti sono costretti a fronteggiare enormi ostacoli fino allo spettro della morte

Joe si rompe una gamba. L’incidente ad alta quota, sempre in agguato, anche nei passaggi apparentemente più facili, rappresenta quasi una condanna a morte, soprattutto in zone in cui è impossibile organizzare operazioni di soccorso, dato il totale isolamento. Joe attende l’inevitabile separazione: Simon dovrà lasciarlo e continuerà da solo. Ma Simon non si muove: dopo molto tempo, tenta una strategia che gli permette di trascinare Joe e scendere ancora insieme con lui, proseguendo con il compagno che viene fatto scivolare, in agonia, fino all’estremità della corda di sicurezza, attraverso un complesso e ingegnoso sistema di tensioni, di snodi e di rilasci, alla ricerca di sempre nuovi appoggi. Improvvisamente il tempo peggiora, comincia una bufera e la luce diminuisce rapidamente, ma i due compagni devono comunque continuare la discesa fino ad una base piana e sicura per appoggiarsi. A questo punto Joe, scivolando, cade nel vuoto e resta sospeso, attaccato a Simon solo attraverso la corda di sicurezza. Non si sente e non si vede più nulla. La situazione è drammatica, ma Simon non molla. Cerca di tirare a sé il compagno ma non ci riesce. «Tirarlo su non potevo. In breve non sarei più riuscito ad oppormi alla forza che mi tirava giù. Finora avevamo incontrato solo salti brevi, quindici metri al massimo. Speravo che questo non fosse diverso dagli altri. Era l’unica cosa che potessi fare…». Allora taglia la corda che lo lega al compagno. Per un alpinista tagliare la corda equivale a violare un codice etico fondamentale della montagna. Al loro rientro in Gran Bretagna, la comunità degli scalatori accusa Simon di tradimento. Joe ha deciso perciò di scrivere il libro per spiegare come realmente andarono i fatti e scagionare l’amico. E’ evidente che nessuno avrebbe mai voluto trovarsi nei panni di Simon che aveva tagliato quella corda, pensando che il suo gesto poteva equivalere ad una condanna a morte, né tanto meno in quelli di Joe che si trovava appeso all’altro capo della corda spezzata. La mattina dopo, vedendo l’abisso i cui Joe era caduto, Simon sente confermate le sue paure. Persa ogni speranza, abbandona allora il compagno per salvare se stesso. Simon non poteva pensare altro, ma le cose non erano così. La scalata iniziata in coppia termina, malgrado tutto, singolarmente.

Invece, la caduta di Joe è stata interrotta da un ripiano di ghiaccio. Pur gravemente ferito, egli è ancora in vita. Grida con tutte la sue forze, ma dalla profondità della fessura in si trova non riesce a farsi sentire. Sa che adesso è completamente solo e che la morte ormai è sicura. Si chiede: «Dovrei pregare? Ma prego solo perché mi trovo in questo guaio? Devo rivolgermi a Dio? Sono cresciuto cattolico, ma fin ragazzo non credo più. Non c’è niente. Sono solo in questo mondo». Comincia a piangere e a maledire tutto. Poi torna in sé e, per quanto sembri non esserci più spazio alcuno, sa che deve decidere. Pensa come risalire l’abisso, ma il tentativo fallisce. Allora deve cercare un’altra risposta non fuori ma dentro di sé. Guarda all’altra terribile possibilità che gli si apre davanti: l’improba discesa. Deve scendere ancora nell’abisso, come se ci fosse un’altra possibilità e là in fondo non lo attendesse il vuoto, ma una via di uscita. Scende fino ad un ripiano e vede un’apertura e un raggio di sole che indica un passaggio verso la vita.

In questa terribile situazione Joe si trasforma. Invece di muoversi come una vittima, decide di agire a partire prima dalla logica e poi dalla fede. Sospende la paura, guarda la situazione con «occhi esterni» e si affida, eludendo poi «il mostro» da cui è stato preso. In tutto questo egli non crede di poter contare altro che su se stesso, per quanto gli sembri niente di fronte a ciò che lo circonda e alla paura che lo minaccia dentro. Ma trova la risposta giusta secondo le risorse che egli scopre dentro di sé. Quando esce finalmente al sole, vede nella neve le impronte rassicuranti del compagno, e si prepara a seguirle. Ma qui un altro abisso lo attende perché si rende conto della distanza immane da attraversare da solo, ferito con una gamba rotta, esausto e pauroso, e per giunta senza fuoco e acqua. Appena misura le proprie forze rispetto al cammino che lo aspetta, non può che riconoscersi vinto: «Premetti il viso contro la neve cercando di portar ordine nel mio cervello confuso. E ora, che faccio?».

Eppure, di nuovo, egli trova il percorso. Prende la decisione di suddividere lo spazio in «minuti di cammino». Sceglie – mete raggiungibili, sfidandosi a colmare queste piccole distanze entro un tempo stabilito, evitando così lo scontro diretto con la smisuratezza del compito. Mantenendosi fedele alle mete raggiungibili, e quasi dimenticandosi dell’ultima, esce ancora una volta dall’abisso e raggiunge la salvezza, come se il vuoto e il nulla potessero essere colmati da un piccolo essere vivente coraggioso che non rinuncia alla speranza.

4. Raccontarsi: narrazione a sfondo religioso

La morte sospesa èun film che tratta di un’esperienza che si concentra, in sostanza, sul tema del desiderio umano di andare oltre i propri limiti, di immergersi totalmente in una lotta che può portare alla resa o ad un’estrema reazione per la sopravvivenza, a meno che la vita non si dissolva di fatto nel nichilismo, nel senso negativo del vuoto e del niente. Un tale desiderio è emblematico dell’ansia d’infinito e dell’aspirazione a qualcosa di inafferrabile, presentate qui in termini di una utopica comunione tra la natura e l’uomo che, come una cerva ai corsi delle acque, avverte palpabilmente i propri limiti di fronte alla natura, ed è delusa perché i torrenti sono secchi. Il terrore quindi di trovarsi posto faccia a faccia con l’incognita della morte, è lo stesso terrore di trovarsi faccia a faccia con il limite umano, l’umano che vorrebbe sfidare anche la morte. Il dramma svela qualcosa di ciò che è archetipico nell’essere umano, già trattato nell’immagine delle nostre origini: «il Signore Dio disse allora: Ecco, l’uomo è diventato uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre» (Gen 3,22). L’uomo, quindi, è scacciato dal giardino paradisiaco, e da questo momento in poi il suo desiderio diventa «cognizione del dolore» della vita per il suo limite, per la sua impotenza. Il desiderio di spingersi oltre è perdita e scoperta. L’acquisto di intelligenza, la capacità di riflettere che lo distingue dagli animali, ha rivelato la fragilità, la nudità della creatura proprio di fronte al desiderio, il suo essere inerme. Sfidare gli estremi, raccontato nel film in termini della sfida lanciata alla natura, porta sia alla consapevolezza che la vita è sofferenza e fatica e che ci sarà sempre qualcosa che sfugge alla nostra padronanza, sia alla scoperta che il dolore e il limite sono le condizioni perché l’uomo cresca e diventi agente di nuove possibilità.

In questo contesto drammatico in cui l’uomo vuole misurarsi e domare il senso della futilità, il cordone che lega i due alpinisti fra di loro è chiara metafora visiva di «una vita appesa ad un filo» e dell’importanza del rapporto di amicizia e dell’abilità che li tiene insieme, ma non solo. E’ anche l’immagine vincente della solidarietà umana, della condivisione, della fiducia reciproca, di fronte all’indifferenza della natura e della futilità dell’esistenza. Tagliare il cordone e lasciare che l’altro cada verso una morte quasi sicura, ha suscitato polemiche e censure da tutte le parti. Sarebbe stato meglio, secondo molti, rimanere legati, anche se di conseguenza tutti e due sarebbero morti: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ma i protagonisti stessi avvertono che in quel caso nessuno avrebbe saputo più nulla di questa vicenda. Se la corda non fosse stata tagliata, nessuno dei due avrebbe fatto l’esperienza che essi hanno condiviso con noi.

Accanto all’immagine della solidarietà umana, ne esiste un’altra da prendere in considerazione. Alla nascita ogni essere umano esce dalla sicurezza del grembo, e il cordone ombelicale che lo unisce alla madre deve essere tagliato. Forse qualcosa di questo trauma, che rimane nascosto nei più profondi recessi della nostra memoria, è risvegliato dall’immagine della corda tagliata. La difficoltà nel riconoscere ed accettare l’eventualità di circostanze che giustifichino una tale decisione, è analoga alla fatica della madre che non può accettare il distacco perché il figlio si realizzi non come vuole lei ma come individuo, e alla fatica del figlio che non può separarsi dalla propria madre. Si dice, perciò, che un buon matrimonio è fondato solo su una buona separazione. La corda che ci lega agli altri deve essere tagliata perché il legame può diventare dipendenza supina: mi aspetto di sapere dall’altro che cosa devo fare, cerco la risposta da fuori, quella che corrisponde alle aspettative degli altri, rinunciando alla mia responsabilità di cercare la risposta dentro di me. La corda tagliata vuol dire che ognuno deve fare la sua strada, deve trovare dentro di sé le risposte secondo le proprie risorse. E’ questo il significato della parabola dei talenti (Mt 25,14-30). La vita è stata data ad ognuno. Ognuno ha la responsabilità di fare di questa vita quello che rientra nelle sue capacità effettive. Vivere all’ombra dell’altro, evitando la fatica del percorso necessariamente personale, significa seppellire il proprio talento.

«Due uomini camminano nel deserto. Soffrono la sete, ma non hanno che una sola borraccia di acqua. Certamente non abbastanza per tutti due.
«L’amicizia prima di tutto», decreta Ben Petura. E io non posso che applaudirlo.
«Si divida! Anche se facendolo, rischiano di morire entrambi».
«No!» replica Rabbi Aqiva. «Caiee ca cadmin: la vita di un uomo non gli appartiene. Gli è vietato sacrificarla». Conclusione?
«Che il proprietario della borraccia beva della sua acqua, per attraversare il deserto, per vivere. L’altro? Se ne occupi Dio».
La legge, dice il Talmud, conforme all’interpretazione di Rabbi Aqiva9.

Simon, quando vede che lui e Joe, insieme e legati, avevano raggiunto il punto di non-ritorno, decide di tagliare la corda, non a sangue freddo ma dopo aver pensato che almeno lui si sarebbe salvato e forse, per Joe, il salto non sarebbe stato, come gli altri, più alto di circa quindici metri. Il rischio è molto forte e Simon deve reggere la terribile consapevolezza che l’amico morirà. Nonostante tutto, alla fine del film il messaggio che si ricava non punta solo su questa decisione drammatica presa in extremis, ma è più vasto. L’orizzonte di questo messaggio consiste nell’affrontare l’abisso. La decisione di scendere nell’abisso non è la prima risposta «naturale», chiara, definitiva, ma l’intuizione che il blocco nasconde qualche altra possibilità. E’ un’apertura completamente diversa, accolta dal fallimento, che poi diventa un varco, un invito ad affidarsi in vista di una speranza.

«Più in alto della realtà sta la possibilità», dice Heidegger. Questo è il religioso nell’uomo: andare oltre la certezza, oltre i fatti dell’esistenza, spinto dall’intuizione della possibilità, affidandosi alla speranza. Joe vede la meta che sembra oltre ogni sua ragionevole capacità, ma la raggiunge proprio per questo, dividendo la distanza sulla base della possibilità. C’è sempre la speranza: la natura religiosa dell’uomo è ciò che lo spinge verso un oltre, una possibilità sempre aperta, iniziando un processo che poi lo trasforma. Rischiare di perdere la vita porta a riaverla in pienezza. Nella solidarietà umana ognuno ha la propria esistenza da vivere. Alla fine, non possiamo vivere la nostra vita attraverso un’altra persona. Quando Joe esce al sole, trova le impronte rassicuranti dell’amico, ma anche questa «corda di sicurezza» che lo lega all’altro gli sarà tolta. Per sopravvivere abbiamo bisogno, sì, di contare sull’altro, ma poi, dinanzi alla sfida di vivere la propria vita e dinanzi alla propria morte, rimaniamo inevitabilmente soli, come il momento in cui ci si separa dalla madre. E’ il segno dell’appartenenza alla condizione umana: ognuno ha dentro di sé le risorse per la propria vita, ma solo lui/lei può scoprirle nel proprio vivere.

Il vangelo di Giovanni è l’unico a raccontare la storia di un uomo riportato in vita dalla morte (Gv 11,1-44). Gesù riceve la notizia che Lazzaro è ammalato, ma rifiuta di intervenire a favore dell’amico. Il fatto che il legame di amicizia non spinga Gesù ad andare subito a soccorrere Lazzaro, ma solo dopo quattro giorni che era morto, suscita alcuni interrogativi. Perché ha rifiutato di andare prima? Non è questa la stessa domanda posta nel deserto e sulla croce? Perché non è sceso dalla croce o non ha cambiato le pietre in pane? Se vogliamo scoprire la vita in pienezza, c’è una verità fondamentale da accogliere, e cioè che i sostegni devono esserci tolti. Quando Gesù finalmente arriva sul posto, tutte e due le sorelle gli dicono che, se ci fosse stato lui, Lazzaro non sarebbe morto. Si aspettavano di essere sostenute nella loro ansia con un intervento esterno di carattere miracoloso. La parabola dei talenti dimostra, invece, che le risorse di cui ognuno ha bisogno nella vita sono dentro noi stessi. Tocca ad ognuno cercarle e scoprirle. Ma mi chiedo: la lotta per la vita di Lazzaro, per Joe o per Simon ? per ognuno di noi, è solo una lotta per la sopravvivenza? E’ una lotta per preservarsi, o una lotta per sondare il senso della vita? «Se Cristo [ha rifiutato di soccorre Lazzaro], se ha rifiutato di mutare le pietre in pane, se ha rifiutato di scendere dalla croce, fu per stabilire in modo definitivo la nostra libertà»10 , lasciare cioè lo spazio perché si scopra la possibilità. La natura umana ha i suoi processi e i suoi tempi perché scopra di non essere semplicemente un modo di sopravvivere. Senza l’intervento di Gesù, tutte e due le sorelle sono state messe duramente alla prova, ma si aprono poi ad un’ulteriore percezione della vita che diventa per loro un’esperienza trasformatrice prima che il fratello esca dalla tomba! Tutti e due gli alpinisti sono stati provati all’estremo, ma scoprono poi in loro stessi le risorse che cambiano il senso medesimo della vita. Colui che era sospeso alla corda tagliata non si sente vittima di un tradimento ma, anzi, sente il bisogno di scrivere un libro per riabilitare l’amico. Ogni persona ha la vita come dono e come sfida a scoprire dentro di se le risorse che possiede per viverla «in pienezza».

Il titolo del libro Toccando il vuoto cela in sé, dunque l’ambiguità di un’insidia nella lotta tenace e disperata non solo per la sopravvivenza personale, ma per trovare un senso. La montagna, come il mondo stesso, è il crogiuolo di un raffinamento della natura umana alla scoperta della sua potenzialità. Bisogna affrontare la futilità, il niente, prima che uno sappia ciò di cui è plasmato. Assistiamo al dramma di coloro che sono costretti a reagire contando esclusivamente sulle proprie risorse per riconquistare il diritto a rimanere in vita, ovvero a realizzarsi come essere umano. Ipotermia, congelamenti, ferite sono gli aspetti della realtà fisica, esterna, che i protagonisti devono sopportare, ma questi aprono poi alla realtà interna che devono reggere ugualmente: la solitudine, la disperazione, le paure primordiali e gli antichi terrori che riemergono, il vuoto.

L’uomo è una creatura destinata a sondare la propria esistenza. Sembra che per natura sia spinto dalla necessità di mettersi alla prova, di vincere o perdere sfidando l’ignoto per scoprirsi creatura eccedente di fronte all’eccedenza. L’istinto che Io spinge a sfidare ogni limite ha, comunque, la sua ombra. La forza che lo spinge a sfidare i confini è la stessa forza che può portarlo all’autodistruzione. Le ambizioni che muovono l’essere umano spesso lo rendono troppo sicuro di sé e possono lasciare troppo spazio all’ego, esaltandolo fino a fargli esperimentare attributi che sono quasi divini. L’ybris, lo spingersi al di sopra dei propri limiti, è l’ambizione che poi precipita l’uomo nel disastro. Il mito greco di Icaro racconta del giovane che costruisce ali fragili per salire in cielo, per volare poi troppo vicino al sole e cade alla fine nella morte. D’altro lato, se non facciamo niente con il dono della vita, con il talento che ci è stato dato, se per paura ci teniamo sempre al sicuro e legati agli altri, se non ci spingiamo oltre e non corriamo dei rischi, non è possibile né superare gli ostacoli, né scoprire la meta che possiamo raggiungere con ,ragionevole certezza. E’ questo il paradosso in cui noi esseri umani siamo presi. Ma è solo dentro questo paradosso che si scopre l’orizzonte di Dio. Il vuoto e il niente che l’uomo desidera colmare restano alla fine oltre la sua capacità di colmarli. La consapevolezza di un desiderio che necessariamente rimane insaziato, può salvare l’uomo dall’illusione dell’onnipotenza, dall’illusione di essere capace di superare ogni limite, e lo può condurre ad accettare che il percorso della sua vita proceda sotto il segno dell’incompiutezza. Se si accetta questo, allora la ricerca di un senso non ci lascia preda della futilità.

Andare verso un «oltre» in ragione di una speranza, riconoscersi come essere teso alla possibilità e motivato dalla speranza nonostante le condizioni impervie della vita stessa, e nonostante il rischio che comporta il «tagliare le corde di sicurezza», tutto ciò ha a che fare con la natura religiosa dell’essere umano. L’uomo si pensa, quindi, non come essere compiuto, ma in termini dinamici, come evento,come essere in divenire. Secondo il filosofo Gianni Vattimo, «per pensare l’essere non più in termini metafisici, come una struttura necessaria [statica] data una volta per tutte, lo si deve pensare come evento; e l’evento è frutto di una iniziativa, quella di cui io stesso mi sento “effetto”, erede, destinatario. Se, come credo, l’esperienza religiosa è sentimento di dipendenza…, consapevolezza che la mia libertà è iniziativa iniziata…, il pensiero filosofico dell’essere come evento è anche intrinsecamente orientato in senso religioso»11. Direi che il messaggio del film si colloca qui. MacDonald racconta l’evento di una sfida alle risorse umane fisiche e psicologiche e il sorndare del limite e della possibilità, come metafora del percorso verso un senso religioso dell’esistenza che si potrebbe opporre al vuoto e all’insensatezza di un vivere senza Dio, senza respiro spirituale in una cultura secolarizzata e nichilista.

5. Quali prospettive per la religione?

Ci troviamo, dunque, all’incrocio tra l’indifferenza e l’estraneità alla religione istituzionale, e il ritorno del religioso in senso generico. Oltre la religione, perché, come scrive Javier Melloni, «la Modernità è esattamente la ribellione difronte al sequestro del sacro da parte dell’establishment e da parte di una determinata interpretazione della religione»12 .

Per la religione istituzionale, per la Chiesa, il problema che si pone, quindi, è come «dire Dio oggi», come trovare parole umane che diventino luoghi di incontro con la parola di Dio; come evocare il senso del mistero e della meraviglia e far sì che i simboli si scoprano come luogo di incontro con l’alterità. L’esperienza religiosa pluriforme, che è l’espressione variegata della natura religiosa dell’uomo, presenta alla Chiesa – alla religione nel suo aspetto istituzionale-esclusivista – un messaggio di sfida, e cioè che il luogo in cui si rende presente l’azione di salvezza di Dio in questo mondo è l’esperienza umana, il vissuto umano. Non vi è contraddizione tra ricerca dell’assoluto e attenzione aperta a quanto è autenticamente umano. Il fine principale potrebbe quindi essere il superamento della futilità nel fiorire della vita in vista della possibilità, inclusa quella della comunione con l’indicibile. Significa vivere la tensione fra il mistero dell’abisso che aleggia nell’esistenza umana, ossia il nulla, la futilità e la morte come possibile baratro, il cui simbolo sarebbe la croce; e la fiducia che l’esperienza concreta dà accesso alla realtà interna e quindi alla possibilità di un’apertura sull’abisso stesso che sfocia oltre l’oscuro, nello spazio aperto e luminoso della «radura», il cui simbolo sarebbe la risurrezione. Allora, quell’«oltre» della realtà di Heidegger trasforma il «nulla» dell’abisso nella radura di una possibilità perenne di risurrezione. «Assumere la polarità senza abolire nessuno dei due termini, tollerando perciò il possibile spettro del vuoto abissale e nientificatore, è probabilmente – secondo il filosofo Mauro Pedrazzoli – la forma moderna (e nichilistica) di cristianesimo che siamo chiamati a vivere oggi» 13. Le tracce di Dio nel finito del nostro mondo sono ambigue, ed è sempre più difficile riconoscerle. Ma il grido alzato dell’uomo di fronte all’abisso, il grido che domanda se c’è un Dio, significa che il concetto di Dio non ha perso il suo referente. Anzi, è proprio l’esperienza della negatività e dell’abisso che risveglia la percezione di Dio, di un Dio che si percepisce solo di fronte alla realtà dell’abisso. La sua presenza, poi, si manifesta nel lasciarsi toccare dal vuoto e nella motivazione che cerca una via di uscita.

Il libro Toccando il vuoto si presenta come metafora di questo cammino che va verso uditori attenti al di fuori dei ristretti confini di luoghi istituzionali o tradizionali. Attraverso la dura realtà della vita e la ricerca delle risorse a partire da grossi ostacoli, c’è già in atto un’esperienza religiosa. Nello spazio in cui si scopre un essere in divenire, l’uomo si apre alla possibilità, intravede la risurrezione oltre la croce, e sperimenta qualcosa di indicibile. Da parte sua, Kevin MacDonald, il regista del film La morte sospesa, ci ha fornito delle categorie che potrebbero dare un senso alla nostra esperienza concreta come accesso alla realtà interna, e celebrarla come mistero della vita, realtà sacrale.

* Monaco del Sacro Eremo di Camaldoli

(da Vita Monastica n. 237, luglio-dicembre 2007)

L’IMMENSITÀ DI DIO

Il mondo è carico dell’immensità di Dio,
Fiammeggerà,
come fulgore da percossa lamina;
s’addensa fino ad ingrandirsi, come
l’emanazione dell’olio
Franto. Perché dunque l’uomo ora non
riconosce la sua verga?
Generazioni hanno calpestato,
hanno calpestato, calpestato;
e tutto è arto dal commercio; offuscato,
insozzato dall’incessante fatica;
e porta lordume d’uomo e prende lezzo
d’uomo: il suolo
è arido ora, né sente piede,
essendo calzato.

E, nonostante tutto questo,
mai la natura è spenta;
Vive in fondo alle cose
la frescura più cara;
E sebbene le ultimi luci
dal nero Occidente partissero
Oh, mattino, dall’orlo bruno d’oriente,
sorge.
Perché lo Spirito Santo sopra il curvo
mondo cova con caldo petto
e con ah! luminose ali.

Gerard Manley Hopkins
(1844-89), Poems, 1918

Note

  1. Cfr. C. Geffré, Verso una nuova teologia delle religioni, in R. Gibellinil (a cura), Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 353 ss.
  2. M. Galuzioli, Sentieri nel sacro, Cittadella Editrice, Assisi 2004, p. 155.
  3. C.G.Jung, Man and bis Symbols, Picador 1964, p. 84 (tr. it. L’uomo e i suoi simboli, Raffaello Cortina, Milano 1983).
  4. A. Houtepen, Dio una domanda aperta (1997), Queriniana, Brescia 2001, p.13.
  5. Cfr. A. Cortesi, Predicare in Europa oggi, in Prospettive domenicane per l’Europa, San Domenico di Fiesole 2005, p.9. Mi sento molto obbligato verso questo primo quaderno della nuova collana di Espaces, in cui si tratta delle prospettive europee per la religione e la società.
  6. Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991, p. 20, citato da N. Bobbio, Elogio della mitezza, Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 33.
  7. Fabris, Dire Dio nell’epoca dell’indifferenza religiosa, p. 5; cfr. A. Matteo, Postmodernità e futurodel cristianesimo, in «Settimana», 20 nov. 2005, 9.
  8. A. Cortesi, op. cit., pag. 15.
  9. E. Wiesel, Celebrazione talmudica (1991), Ed. Lulav, Milano 2002. Debbo la citazione all’amico Dario Grison, che ringrazio.
  10. Cfr. O. Clément, Dialoghi con Athenagoras, Cribaudi, Torino 1992, pp. 285- 286, citato inLetture dei giorni, a cura della Comunità Monastica di Bose, Piemme, Casale Monferrato.
  11. G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1998, p. 96.
  12. J. Melloni,Religion on the Road, in Adista-contesti 4/2005.
  13. M. Pedrazzoli, in “Matrimonio”, XXVIII, n. 4, dic. 2003, 13-14.

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