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Sudafrica: contro la “schiavitù del XXI secolo” un rifugio sicuro

Mercy House in South Africa

© Public Domain

Davide Maggiore - Aleteia - pubblicato il 27/05/14

Religiosi, laici e operatori sociali collaborano da dieci anni nella gestione della Mercy House, che accoglie le vittime del traffico di esseri umani: donne ancora minacciate da potenti organizzazioni criminali.

Per le schiave dell’era moderna, in Sudafrica, la segregazione non è mai finita e la loro vita di donne abusate, recluse e costrette a lavorare senza paga o a prostituirsi, è spesso come un apartheid individuale, che leva loro il diritto ad avere l’esistenza che desidererebbero. Fornire cifre ufficiali è difficile, perché i casi vengono alla luce solo quando alcune delle vittime riescono a sfuggire ai loro aguzzini e a denunciarli, ma Città del Capo, Durban e Johannesburg sono alcuni dei principali snodi africani della “schiavitù più estesa del XXI secolo”, come papa Francesco ha definito il traffico di esseri umani. A dare rifugio alle donne vittime di questo crimine pensano strutture come la Mercy House nata 15 anni fa nell’ovest del Paese, per iniziativa delle suore irlandesi della Misericordia, come rifugio per vittime di violenza domestica. Un compito che dura ancora, e a cui, dal 2004, si è aggiunto anche il servizio a favore delle ‘schiave moderne’. Oggi vi provvedono, insieme, figure religiose, laiche e operatori sociali, con l’appoggio – anche finanziario – del governo sudafricano e la collaborazione della procura generale e della polizia locale.

La casa, vista da fuori, sembra simile a tante altre nel circondario: nulla deve apparire all’esterno, spiega una delle persone che collaborano alla struttura, perché i rischi per l’incolumità delle ragazze sono grandi. Come ha confermato anche l’ultimo rapporto del Dipartimento di Stato Usa in materia, sono infatti spesso mafie internazionali – tra cui spiccano quella nigeriana, quelle dell’est Europa e quella cinese – a gestire il traffico di donne provenienti da ogni parte del mondo: da altre regioni del paese, ma anche dal vicino Zimbabwe, dal Congo e, in molti casi, persino dalla Thailandia. Arrivano con la speranza di un’occupazione, magari dopo aver risposto all’annuncio apparso su un quotidiano, ma il lavoro – in ristoranti, negozi di parrucchiere, alberghi, ristoranti, imprese di pulizie, ma anche singole famiglie – anche quando c’è, è senza stipendio e senza diritti di nessun tipo. Altre, invece, sono direttamente costrette a prostituirsi: sono esperienze come queste a far sì che queste donne, “in apparenza molto dolci” siano “capaci di diventare all’improvviso terribilmente aggressive”, continua la volontaria. Poi, per spiegare la situazione, fa riferimento anche ad un caso concreto: quello di una ragazza coinvolta nel traffico da quando aveva 14 anni, e che per anni è stata incapace anche di tentare la fuga perché troppo spaventata, sia per il controllo strettissimo dei suoi aguzzini, sia per aver visto altre ragazze uccise dopo aver cercato di scappare.

Non è questa l’unica paura che le organizzazioni criminali sfruttano per tenere soggiogate le loro vittime: dopo aver tolto loro i telefoni cellulari, impedendo così che possano avvertire i parenti, i criminali minacciano le ragazze di vendicarsi sulle famiglie se dovessero provare a scappare. Ma il pericolo può essere anche quello opposto: “Pregate che non troviamo mai vostra figlia, o sarà morta”, hanno detto in una telefonata alcuni trafficanti ai genitori di una delle donne, che era sfuggita loro e aveva sporto denuncia. Sia per i familiari che per le vittime, queste pressioni rischiano di essere insostenibili, anche considerati i tempi lunghi dei processi contro i criminali: anche se dallo scorso anno il Sudafrica ha una legge che punisce questo reato con l’ergastolo e una multa equivalente a 7 milioni di euro, le cause procedono a rilento e le ragazze, per la loro sicurezza, non possono lasciare Mercy House, così come le altre ‘strutture sicure’ del Paese, se non dopo aver testimoniato.

“È questa, forse, la cosa più terribile – conferma la responsabile della casa-rifugio – perché le loro sono, per così dire, ‘vite in ostaggio’, finché la causa non è terminata”. Molti abitanti della zona cercando di alleviare almeno un po’ questa condizione facendo arrivare alle ragazze “generi alimentari, articoli per la casa o qualsiasi cosa che possa migliorarne almeno un po’ la vita”, ma c’è un’altra cosa – continua la responsabile di Mercy House, che tutti potrebbero fare: “diffondere la consapevolezza che questo accade, e che ferisce le nostre anime”.

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