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La follia della Legge Islamica

a Sharia court (Islamic court) in Banda Aceh – it

AFP PHOTO/Jewel SAMAD

INDONESIA, Banda Aceh : Indonesian Nasrul Mubin (L), 30, is caned in public by an ''algojo'' or veiled law-enforcement official, after he was found guilty of gambling before a Sharia court (Islamic court) in Banda Aceh, 02 December 2005. The Indonesian government allowed Aceh province to implement Sharia law in 2001 as part of limited self-rule to pacify clamor for independence, but an Islamic tribunal was only established in late 2003 in the province. Aceh, where armed separatists have been fighting since 1976, has so far only partially implemented sharia, enforcing Muslim dress codes and obligations such as daily five-time prayers, fasting and alms. Gambling is illegal throughout Indonesia. But despite being the world's most populous Muslim nation, Indonesia does not impose Sharia law in other regions except Aceh. AFP PHOTO/Jewel SAMAD

Vita.it - pubblicato il 22/05/14

La Sharia nell'esperienza di un missionario italiano

In questi giorni, sono molti gli amici che mi chiedono chiarimenti sulla Shari’a, la legge islamica. Visitando i Paesi africani di tradizione musulmana, ne ho spesso sentito parlare, cogliendo la complessità della materia di natura giuridica e religiosa. A questo proposito, come già scritto su questo Blog, nel Corano non v’è traccia di Shari’a. È, invece, menzionata nella Sunna, ovvero la tradizione del profeta Mohammed, da cui molti giureconsulti conservatori attingono prendendola alla lettera, senza però tenere conto del contesto storico. Fu comunque un viaggio in Somalia a farmi comprendere quanto l’applicazione di alcuni precetti fosse agli antipodi del mio modo d’intendere e di volere lo stato di diritto e dunque la legalità. Mi pare estremamente importante rievocare questa esperienza, non foss’altro perché è rivelatrice di un mondo anni luce distante dal nostro immaginario.

“Tagliare le mani, mi creda, non è un divertimento! Capisco che per voi occidentali può essere assurdo, feroce, incomprensibile….ma è l’unico modo per vivere in pace!”. Siamo in Somalia nel 1996, e precisamente a Giohar, una cittadina a meno di 100 chilometri da Mogadiscio. Chi parla è un uomo sulla cinquantina, lo sceicco Mohamud Hagi Hassan, presidente della Corte islamica. È mingherlino e ha una barbetta a pizzo. Mi saluta cordialmente invitandomi a sedere. La stanza in cui ci troviamo è cupa. Uno spiraglio di luce mi permette, a malapena, di scrivere quello che dice. Ci separa una scrivania in legno intarsiato, retaggio dell’epoca coloniale italiana. Di fianco, accovacciati su di una lunga panca, siedono i consiglieri di corte. Provo una strana sensazione. Mi sento fuori dal tempo e dallo spazio, immerso in un altro secolo della storia umana. Dentro di me , inutile dirlo, faccio fatica a riconciliare il messaggio di pace, di cui lo sceicco si dice paladino, con ciò che ho appena visto all’ingresso della corte. Uno spettacolo orribile: due mani appena amputate, appese a una sbarra con una striscia di garza. È la pena inflitta a due ladri di bestiame. Ma è mai possibile che alle soglie del Duemila la giustizia debba far ricorso a tali violenze? Ho però deciso d’astenermi da ogni giudizio. Sono infatti consapevole d’essere di fronte a una realtà anni luce distante dall’immaginario occidentale. Una realtà dove la religione è legge e soprattutto dove la vita ha ben altri significati che quelli attribuiti dal sentiero nostrano. Dopo il ritiro dei caschi blu nel marzo del 1995, in Somalia si è riaccesa la violenza con conseguenze disastrose per i civili. Mogadiscio, la capitale, sembra una Sarajevo africana. A Giohar, cittadina del Medio Shabeli, la situazione è invece calma. È vero che per muoversi ci vuole la scorta armata. Ma non si registrano né scontri, né tanto meno le oscenità di cui è teatro la capitale. C’è persino un ospedale gestito da una Organizzazione non governativa italiana, l’Intersos. Tre volontari e una quindicina tra medici e infermieri somali che si danno da fare per far fronte alle continue emergenze. In corsia ci sono tanti malati. Il dottor Francesco Soave, amministratore dell’ospedale, parla di circa 2 mila ricoveri all’anno e di 100 visite ambulatoriali al giorno. Distesi su due lettini ad angolo retto ci sono anche i due giovani a cui sono stata amputate le mani. Si lamentano. È penoso vederli. Uno ha 24 anni, l’altro 26.

Ma i casi più frequenti di ricovero sono dovuti alla malnutrizione. La tubercolosi è alle stelle. Un medico mi dice che è difficile fare cifre, ma almeno il 50 per cento della popolazione del Medio Shabeli ne sarebbe affetta. Poi c’è la malaria e non mancano mai i feriti per colpi d’arma da fuoco “Del resto”, mi dice una guardia, “in Somalia è più facile comprare una manciata di proiettili che un po’ di cibo”. È solo per la bravura del personale ospedaliero che la mortalità non supera il 2 per cento dei ricoveri annuali. Sono questi medici che mi

hanno fatto ottenere il permesso d’intervistare il presidente della Corte islamica. Sceicco, gli dico, mi hanno raccontato in che modo vengono fatte le amputazioni. E mi hanno riferito che sono molto lente. Senza anestesia, è tremendamente doloroso, disumano, non crede?
“È il prezzo che deve pagare chi ha sbagliato. Prima che fossero applicate queste pene a Giohar si viveva nell’anarchia, oggi, come lei stesso può vedere, è tutto tranquillo”.
Non crede si siano altri modi per fare giustizia?
“No!”.
Perché tanta violenza in Somalia in questi ultimi anni? È possibile che la colpa, come spesso si scrive, ricada tutta sul defunto presidente Siad Barre?
“Siamo tutti vittime del flagello della guerra civile. La sete di potere di alcuni uomini ha innescato una vera e propria spirale di violenza. La situazione non era più tollerabile. E allora, facendo tesoro della tradizione religiosa della nostra terra, abbiamo deciso d’introdurre la Shari’a, quella che voi occidentali chiamate legge islamica”.
In cosa consiste?
“Anzitutto mi consenta di rammentare che l’Islam è la religione della “sottomissione a Dio”. Il nostro testo sacro è il Corano ed esso rappresenta la parola rivelata da Dio al grande profeta Muhammad. Questa Parola è comandamento, è precetto. Chi vuole essere sottomesso a Dio deve metterla in pratica. Esiste dunque un sistema giudiziario che trae ispirazione dalla nostra tradizione religiosa, e che permette ai Paesi islamici di poter essere pienamente sottomessi alla legge divina e consente d’individuare le responsabilità personali”.
Ma mi pare che questo sistema non venga condiviso da tutti i musulmani?
“È vero. La Shari’a è applicata in quei Paesi che vogliono essere fedeli ai sacri dettami della nostra fede”.
C’è chi ritiene che questo sia integralismo religioso.
“Dov’è scritto che l’integralismo sia brutta cosa? Lo scopo della Shari’a è quello di stabilire la pace. La nostra religione è la religione della pace. Dove è presente il vero Islam, c’è pace! Nella nostra tradizione religiosa, tra i 99 attributi di Dio c’è anche quello della “pace”. E questa pace noi la invochiamo soprattutto pregando e applicando la Shari’a. Guardi cos’è accaduto l’anno scorso a Merca dove una dottoressa italiana è stata uccisa e un dottore ferito gravemente. Se a Merca ci fosse stato un tribunale islamico le cose sarebbero andate diversamente”.
Conoscevo la dottoressa. Si chiamava Graziella Fumagalli e operava in una struttura sanitaria della Caritas Italiana. Ma non pensa che siano stati proprio i fondamentalisti a ucciderla?
“Chi ha ucciso la dottoressa ha violato la legge di Dio e va punito. I veri ‘credenti in Dio’ non commettono simili gesti. Le ripeto che se a Merca esistesse un tribunale come il nostro certi fatti incresciosi non accadrebbero. Solo i nemici di dio uccidono in quella maniera”.
Lei afferma che l’applicazione della Shari’a è garanzia di pace. Faccio fatica a crederlo dopo aver visto quelle due mani penzolanti.
«Io credo che istituzioni come il tribunale islamico, istituzioni che trovano ispirazione nella Shari’a, servano per garantire agli uomini la pace e la convivenza. Le pene che la legge prevede, per esempio, per il furto, trovano ispirazione nella stessa volontà divina. Nella Surah quinta, versetto 38, leggiamo: ‘All’uomo che ruba e alla donna che ruba si
ano tagliate le mani come punizione per quello che hanno ottenuto, una punizione esemplare di Allah; e Allah è onnipotente e sapiente’. È Dio che ci suggerisce cosa fare. E la posta in gioco è la pace. Queste pene, per usare il linguaggio moderno, sono una sorta di deterrente contro chi, senza scrupoli, attenta alla pace della comunità. La nostra religione ci dice che senza queste regole e punizioni è utopistico pensare di ottenere una fraternità duratura tra gli uomini”.

Ho incontrato nell’ospedale di Giohar i due giovani a cui sono state amputate le mani. Le assicuro che mi hanno fatto pena. Quale collaborazione esiste tra la corte e le autorità sanitarie?
“La nostra corte ha anzitutto chiesto alle autorità dell’ospedale una consulenza medico-legale nei casi in cui questa èprevista”.
Può farmi qualche esempio?
“Nel caso per esempio di una donna che dice d’essere stata violentata, il parere medico è importante per giudicare. O nel caso di omicidio richiediamo l’autopsia. Quello che vogliamo è un referto scritto dal medico che spieghi alla corte come davvero sono andate le cose. Se la scienza ci aiuta nel giudicare siamo felici”.
Da quanto si sente dire in giro, non pare che tutti i somali siano d’accordo con la Shari’a. Alcuni infatti la trovano intollerante. Non ritiene che un tribunale laico potrebbe far rispettare ugualmente la legge?
“No, l’Islam è una teocrazia in cui la dimensione religiosa è intimamente unita a quella temporale. Il Corano parla chiaro. È Dio stesso che lo afferma! Poi, non è affatto vero che l’Islam sia intollerante . I cristiani e gli ebrei, perché credenti nel ‘kitabi’ (Libro), vedono riconosciuta la libertà di seguire la propria fede. È chiaro però che dove sono una minoranza devono accontentarsi di rimanere quello che sono e non possono soprattutto pretendere di avere una loro legge. Piuttosto vigerà la legge della maggioranza, la Shari’a appunto. Noi crediamo che un popolo debba essere governato secondo le proprie credenze”.
Non le sembra che questa prospettiva sia riduttiva? In fondo, se questi stessi principi che lei afferma fossero applicati in Europa, i musulmani dovrebbero essere emarginati, non potrebbero accedere alla vita politica, non dovrebbero avere diritto di costruire moschee… Insomma, voglio dire, un po’ di reciprocità non guasterebbe.
“Noi desideriamo un sereno dialogo con i cristiani rifacendoci proprio al sacro Corano. In esso leggiamo nella Surah quinta al versetto 69: ‘Certamente coloro che credono e coloro che sono Ebrei e Sabei e Cristiani, chiunque crede in Allah, negli ultimi giorni e fa il bene, loro non avranno paura, né si affliggeranno’.
Ho letto da qualche parte che la Somalia oggi potrebbe essere divisa in tre Repubbliche, quella dei cammelli, quella delle aragoste e quella delle banane. Nonostante le rivalità tra i clan e la situazione in apparenza catastrofica, i commercianti continuano a fare affari d’oro. Non pensa che il commercio per molti sia più importante dei problemi religiosi?
“È nostro compito affermare attraverso la fede il primato dello spirito sul denaro. Tutti sappiamo che l’oro corrompe i cuori dei ladri ed è per questo che esiste la Shari’a”.

Sono trascorsi molti anni da quando ebbi questo incontro, esperienza indelebile nella memoria. Devo ammettere che nonostante abbia visitato in lungo e in largo il continente africano, quella era una situazione ‘estrema’, tipica di un contesto molto particolare. La Somalia ha la caratteristica di costituire una sorta di compendio africano delle contraddizioni del mondo occidentale e di quelle del mondo musulmano. Questo Paese è ancora oggi senza Stato, lacerato da divisioni fomentate dai ‘Signori della Guerra’. Ma la risposta a queste inquietudini non risiede soltanto nelle analisi delle relazioni internazionali e dei potenziali economici presenti (petrolio, gas e uranio…), oppure nelle spinte, nelle ambizioni e nei sogni dei leader. Vi è anche la presa d’atto della dimensione culturale che provoca un miscuglio di tragiche condizioni di sopravvivenza e di ambizioni perverse.

Qui l’originale

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