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La Bibbia è nata in Babilonia?

The Bible

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Dimensione Speranza - pubblicato il 22/05/14

Differenti fattori hanno portato a imporre il ritorno dall'Esilio per l'elaborazione dei libri e delle principali figure dell'Antico Testamento

di Pierre Gibert *

Da una decina d'anni si è affermata la «prova» di una composizione «tardiva» della parte essenziale dell'Antico Testamento, al punto da suscitare talora reazioni polemiche: non solo le grandi sintesi del Pentateuco e dei libri profetici e storici, ma l'elaborazione di taluni personaggi risalirebbero al più presto al ritorno dall'Esilio, nell'ambiente più o meno esclusivo di questo Esilio e dunque dell'esperienza babilonese. Questo «colpo di giovinezza» impedirebbe di parlare veramente di Israele o del popolo ebraico prima del V o IV secolo avanti la nostra era.

La prova dell'Esilio infatti ha avuto un ruolo di catalizzatore di questioni. AI ritorno dall'Esilio, inoltre, la preoccupazione di rifondare l'unità di un popolo diviso doveva condurre a queste grandi sintesi.

Se l'incessante movimento di revisione della data di composizione dell'Antico Testamento si è affermato nel corso del XIX secolo, già nel XVII, in particolare nell'ambiente di Spinoza, esso ha ricevuto il colpo d'avvio: da quel momento era attribuito al profeta Esdra, nel V secolo avanti la nostra era, un ruolo decisivo in questo gioco di composizione e di elaborazione. In questa sfera di influenza, tra la fine del XVII secolo e l'inizio di questo XXI secolo, parecchi fattori sono entrati in gioco man mano che si sviluppavano nuove sensibilità e nuove scienze e principi di analisi testuale: la ricerca storica con principi e regole stabilite a partire dalla fine del XVII secolo, le questioni scientifiche che iniziarono a sorgere sempre all'inizio del XVII secolo e non smisero di svilupparsi nel corso del XVIII, le scoperte archeologiche per tutto il XIX secolo, le analisi letterarie e i dibattiti epistemologici nel corso del XX, fattori tutti che tendono naturalmente ad intersecarsi, a identificarsi e a rafforzarsi l'un l'altro.

Come questi differenti fattori hanno portato a imporre il ritorno dall'Esilio per l'elaborazione dei libri e delle principali figure dell'Antico Testamento?

Come in ogni libro e in ogni storia, all'inizio c'è… l'inizio! Ma è una legge elementare di ogni processo storico che per poter raccontare la storia di una nazione, bisogna prima avere un' esperienza e una coscienza sufficiente di questa nazione. Di conseguenza, ogni testo che racconta il passato, e più in particolare ciò che ne costituisce l'inizio, dipenderà dal momento – tardivo – in cui è stato redatto, anche se si fonda su documenti, tradizioni o testimonianze più o meno antichi. Così gli «antenati Galli» dei Francesi, che appaiono veramente come tali solo alla fine del XVI secolo, in un momento particolare e sufficiente dell'esperienza e della Coscienza della Francia, sono dipesi sensibilmente – per quanto storici siano – dalla lingua, dalle immagini, dalle rappresentazioni del momento in cui si sono «raccontati», e in cui c'era bisogno, o necessità, di farlo.

In questo nuovo approccio, i racconti di creazione sono stati dunque i primi a subire il contraccolpo delle scienze dell'universo e della vita, in particolare quelle che promuovevano l'idea di evoluzione, contestando una creazione puntuale come esce dal racconto dei primi capitoli della Genesi. Da parte loro, i racconti del diluvio, che sono stati più legati ai risultati dell'archeologia e alla decifrazione dei cuneiformi assiro-babilonesi, rivelarono versioni più antiche – e politeiste – di simili diluvi.

Così i primi capitoli della Genesi, le figure di Adamo ed Eva, ma anche quelle di Noè e dei suoi figli come il racconto del diluvio si trovano sradicati dalla loro lettura storica tradizionale, tanto più che questi «momenti» di inizio assoluto non potevano derivare da testimonianze umane dirette. E più o meno di buon grado, nonostante gli assurdi tentativi del creazionismo, in particolare negli Stati Uniti, si è passati a letture più simboliche, metaforiche o paraboliche di questi episodi.

Le cose si sono complicate entrando nel corso di una storia che si presentava come sacra, ma anche umana, quella dei Patriarchi. Le datazioni tradizionali – tra il XVIII e il XVI prima della nostra era – urtavano con una realtà incerta per l'epoca, la lingua ebraica, e con l'inesistenza della scrittura alfabetica. Quanto al ricorso ad una tradizione orale per una memoria così antica, non verificabile per così tanti secoli, o il ricorso per la verosimiglianza ad elementi contestuali del Vicino Oriente dell'epoca si rivelarono presto insufficienti, improbabili, insomma, impossibili.

La stessa cosa per la presenza degli Ebrei in Egitto, per la loro uscita, per l'Esodo e poi per l'ingresso nella «Terra promessa»: ci si dovette arrendere all'evidenza, nessuna testimonianza anteriore ai racconti dell'Esodo, dei Numeri e di Giosuè viene a sostenere o a confermare alcunché. Anzi, ciò che si sa di queste epoche dell'Egitto, di queste regioni, dei movimenti dei popoli, non offre alcuna informazione precisa o circostanziata su tutto ciò che questi libri riferiscono, cosa che permetterebbe di renderli verosimili o plausibili, se non veri.

Quanto alle figure di Mosè, Aronne, Giosuè, esse presentano le stesse difficoltà di quelle di Abramo, Isacco, Giacobbe o Giuseppe. In vari modi si è imposta una soluzione: ripartire dall'altra estremità, dalla tappa storica che ebbe bisogno di questi Patriarchi, dei loro messaggi, iella loro fede in YHWH e nelle sue promesse, come delle tappe che ebbero bisogno dell'Esodo, di Mosè, di Giosuè e dell'entrata nella Terra promessa. Contavano anche i territori di tutti questi erranti tra la Mesopotamia e I'Egitto, le città e i santuari attraversati o fondati. Ogni elemento geografico mostrava di dipendere da momenti di questa storia tardiva di un Israele, che aveva bisogno di tali antenati e delle loro «fondazioni», molto più di quanto questo Israele dipendesse dalla loro non verificabile verità storica.

Come si vede, lo scopo delle testimonianze storiche – e geografiche – è capitale in questo cammino di ricerca e di verifica. Questo non vuole certamente dire che degli scribi più o meno abili, più o meno ricchi di immaginazione, abbiano inventato di sana pianta tali racconti e tali figure; essi avrebbero usato tradizioni antiche, racconti più o meno sparsi, «leggende di santuari». Ma essi le avrebbero organizzate in modo che rispondessero in modo coerente e in un continuum alle domande che essi si ponevano, alle esigenze che avevano di una storia che desse loro la comprensione del proprio destino e della propria fede. La «notte dei tempi» diventava così luminosa, fonte e immagine talora idilliaca, in ogni caso fondante di ciò che Israele viveva o doveva vivere idealmente nel momento in cui quegli scribi facevano tali sintesi narrative e legislative.

Andava forse diversamente per epoche più recenti e dunque meno soggette a precauzione? Si poteva credere – e si è creduto a lungo – che gli inizi della storia dei re e quella che li ha immediatamente preceduti, l’epoca dei Giudici, risparmiassero per così dire i dubbi e le relativizzazioni storiche dei periodi patriarcali e dell'ingresso nella terra di Canaan.

Anche là, tuttavia, bisognava fare i conti con i problemi delle origini, i dati archeologici e intendimenti legati alla fragilità delle ideologie. In realtà, i primi momenti della storia regale, nel ciclo di Saul, ma anche di quelli di Davide e di Salomone, entrano in contrasto con una varietà di racconti che arriva alla contraddizione e all'incoerenza. Molti inoltre presentano le caratteristiche della leggenda, o della fiaba. In secondo luogo, l'archeologia registra uno stupefacente silenzio su questi primi re, e non ci offre le sue testimonianze, per di più limitate, che a partire dalla fine del IX secolo, o dell'VIII, per un re del Nord. Infine la molteplicità dei racconti, le loro contraddizioni, le riletture successive rivelano non solo le intenzioni ideologiche, fossero pure religiose, che non vanno molto d'accordo con la storia, ma anche delle «esitazioni» storiche che non garantiscono certo la verità. Di qui, che si tratti di questa prima epoca regale come di quella dei Giudici, il lettore un po' esigente dovrà constatare una fragilità di informazioni che li rende appena un po' meno incerte di quelle dei Patriarchi, dell'Esodo, di Mosè e Giosuè.

Quando Israele ha provato il bisogno di scrivere la sua storia

Ma sin dove si arriva in queste progressive constatazioni di incertezza? Per sottrarsi a questa discesa senza limiti verso il dubbio, bisogna porre diversamente la domanda, che diventa: quando, e sotto quali necessità e influssi, Israele ha provato il bisogno di scrivere la storia come noi la riceviamo oggi, cioè malgrado, o insieme, a quelle che ci sembrano contraddizioni, insufficienze, incoerenze, incertezze, o addirittura illusioni o immaginazioni?

Per rispondere, si deve ragionare a partire da necessità interiori ed esteriori di lotta contro forze disgregatrici. In realtà, se per queste sintesi della Scrittura oggi si stabilisce un consenso abbastanza ampio per accordare un 'importanza capitale al ritorno dall'Esilio, è per due motivi fondamentali: da un lato, la prova dell'Esilio ha rappresentato, per un'elite deportata in Babilonia, un ruolo di catalizzatore della domanda. Un piccolo popolo, dalla storia movimentata e probabilmente molto simile a quella di tutti i piccoli popoli della regione, si è allora giovato di spiriti preoccupati di trovare un senso, come si direbbe oggi. La perdita della Terra ancestrale e di tutto ciò che essa comportava (monarchia, tempio, culto) ha indotto sia a porsi delle domande, sia a riunire dei documenti sino a quel momento sparsi. D'altra parte, al ritorno dall'Esilio, la preoccupazione di rifondare – o di fondare – l'unità di un popolo allora diviso, doveva portare a queste grandi sintesi storiche, ma anche legislative, cultuali (per esempio i Salmi), che permettevano di fornire un corpus coerente di dottrina a questo popolo che prendeva più che mai consapevolezza della patria e della fede che aveva rischiato di perdere. A ciò si aggiungeva la doppia influenza del potere politico, ma anche culturale, dell'Impero persiano in un primo tempo, poi dell'Ellenismo, specie in Egitto, che forniva alcuni modelli di questo lavoro redazionale. Per questo motivo gli studi attuali ripartono, per così dire, da quest'epoca relativamente tarda dei secoli Ve IV per ritrovare l'origine e le ragioni di una riflessione, i modelli (letterari, religiosi) di una redazione e di sintesi che dovevano sfociare, a partire dal III secolo, nelle prime traduzioni della Settanta, ai testi delle «Scritture» che noi ben presto conosceremo.

In un certo senso, il popolo ebreo sperimentava qui un inizio della sua storia, in una presa di coscienza che doveva portare continuamente a risalire di inizio in inizio sino a ciò che avrebbe fondato in definitiva questo popolo, dapprima l'antenato eponimo, Giacobbe-Israele, poi Abramo, il padre per antonomasia. Ciascuna di queste tappe segnate nella risalita avrebbe detto qualche cosa che avrebbe spiegato allo stesso tempo lo scacco dell'Esilio e ciò che ne aveva permesso il ritorno: l'infedeltà e la fedeltà all'Alleanza, la disobbedienza e l'obbedienza alla Legge, la chiusura o l'apertura al messaggio profetico, la perdita della Terra e il ritorno. Non si tratterebbe più soltanto di una storia lineare che andrebbe da un inizio più o meno lontano all'epoca più recente, ma di una rilettura del passato vicino e lontano per fecondare da un punto di vista nazionale e religioso un'attività letteraria fondante e vitale per il passato e per l'avvenire.

La Bibbia è dunque nata in Babilonia, da questa esperienza dello straniero che poteva essere mortale, ma che la fede del popolo ebreo ha trasformato in grazia divina: perché, come per noi, nostro padre era un Arameo errante…

* Direttore di Recherches de Science religieuse

(Da Il mondo della bibbia, n. 5, 2005)

qui l'articolo originale

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