Intervista al docente della Pontificia Università Gregoriana David MeyerA 50 anni dal viaggio di papa Paolo VI in Terra Santa, cos'è cambiato nelle relazioni tra il Vaticano e lo Stato di Israele? Quali sono le nuove sfide?
La prima cosa che è cambiata è il riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele da parte del Vaticano, cosa estremamente importante; questo cambia completamente il contesto delle relazioni tra l'ebraismo e il cristianesimo.
Dall'altro lato, da 50 anni si porta avanti un rafforzamento indiscutibile di tutti gli insegnamenti e le sfide della Nostra Aetate. Il tutto senza dimenticare il passato; è in questo che risiede la forza del documento.
50 anni non sono molti, ma danno comunque la possibilità di vedere nei fatti i cambiamenti, e la fine dell'insegnamento del disprezzo e la sua trasformazione reale nell'insegnamento dello spirito.
Noi abbiamo sempre più una prospettiva storica che stabilisce la qualità di questa relazione, per questo tutto ciò è cambiato molto.
Tra i vari temi, ce n'è uno particolarmente delicato: la problematica di alcuni circoli ebraici in Israele che provano un grande odio nei confronti del cristianesimo.
È un fenomeno inedito, che non esisteva 50 anni fa ma neanche cinque anni fa. L'ebraismo deve affrontare questa nuova sfida, alla quale noi, la comunità ebraica, non eravamo preparati.
Proprio due settimane fa è scoppiato il caso delle famose scritte anticristiane. Il vescovo di Nazareth è stato minacciato di morte in una lettera eloquente: “Tutti i cristiani, tranne i protestanti e gli evangelici, devono uscire da Israele”. Come spiegare questo sentimento anticristiano che lei ha menzionato, e più concretamente come spiega che si sia rivolto più contro i cattolici che contro i protestanti, ad esempio?
C'è una ragione, che per me non è in alcun caso una giustificazione. Le persone – che definirei pazzi furiosi – autrici di questo tipo di lettere e scritte dicono che gli evangelici degli Stati Uniti sono quelli che sostengono incondizionatamente lo Stato di Israele, e invece il cattolicesimo avrebbe una voce più critica rispetto alla politica israeliana.
A ciò si aggiungono altri problemi, tra i quali l'assistenza dei cattolici ai cristiani d'Oriente, che fa sì che esista una sorta di fusione da parte degli ebrei tra l'ebraismo e lo Stato di Israele e favorisce l'animosità verso quelli che sono percepiti come i nemici della politica dello Stato, un'animosità che diventa religiosa.
Il problema di fondo è che l'ebraismo deve riconoscere per la prima volta nella sua storia che ci sono estremisti all'interno della propria tradizione.
La nostra tradizione religiosa è capace di grande bellezza, ma anche di generare violenza e abomini, rifiuto e odio.
Ancora una volta è una novità, e l'ebraismo non era preparato a una lettura violenta del suo rapporto con gli altri.
Oggi scopriamo che non siamo del tutto immuni a questo tipo di derive barbare e del tutto retrograde in seno della tradizione ebraica.
Una delle sfide del viaggio del papa in Terra Santa sarà proprio affrontare questa difficoltà e dire che come la tradizione cristiana ha dovuto affrontare nel suo insegnamento il disprezzo, oggi è l'ebraismo che porta in sé una parte di questi difetti, ed è il momento di fare pulizia tra le sue fila.
Il fatto che il papa abbia deciso di aprire l'accesso agli archivi vaticani perché la Chiesa possa riconoscere una possibile parte di responsabilità per il periodo della II Guerra Mondiale non è un fattore aggiuntivo di riconciliazione per la comunità ebraica?
Di fatto, ci sono enormi fattori di riconciliazione. Tutti gli ultimi papi sono stati molto favorevoli all'ebraismo, con vere amicizie, per cui l'ebraismo ha tutte le ragioni per riconoscere che c'è una reale amicizia ebraico-cristiana.
Questa amicizia, però, non può passar sopra a certe problematiche politiche che dovrebbero permettere al Vaticano di emettere critiche alla politica di Israele quando è legittimo, come fa con altri Stati, in ogni tipo di circostanze, e questo non dovrebbe avere un impatto sui rapporti degli ebrei con il cristianesimo.
Il problema è qui: una parte della frangia religiosa di Israele fonde Stato e religione.
C'è una sorta di idolatria dello Stato di Israele da parte di alcuni pensatori dell'ebraismo della frangia ultraortodossa nazionalista, che idolatrano lo Stato, e in questo modo ogni forma di critica a loro diventa un attacco allo Stato, il che dà luogo a reazioni del tutto insensate.
Se la tradizione dispone di tutte le garanzie per sentirsi riconciliata dalla sincerità del cristianesimo rispetto all'ebraismo, noi dobbiamo ancora affrontare questa nuova questione.
Ci resta quindi da comprendere perché generiamo oggi estremismo quando questo non accadeva in passato.
Come percepisce il popolo di Israele l'arrivo di papa Francesco, e in generale cosa si aspetta dalla sua visita?
Molti non si aspettavano la visita di papa Francesco, in primo luogo per i problemi logistici che poneva in relazione alla visita al Muro del Pianto.
Le autorità religiose che amministrano il Muro non desiderano che la visita del papa turbi la quotidianità della preghiera.
Ogni arrivo di un Capo di Stato, però, turba necessariamente la quotidianità, e in questo contesto si percepisce un rifiuto che va al di là della paura di “fastidi”.
C'è invece tutta una fascia di popolazione che prova una grande curiosità per questa visita. Prova curiosità per questo papa, diverso per il suo modo di essere.
Dall'altro lato, è la prima volta che c'è un papa che ha un amico rabbino: il rabbino Skorka, che lo accompagnerà nella sua visita.
L'aspetto molto interessante è che il rabbino Skorka non è né ortodosso né israeliano. Questo significa molte cose, ad esempio che è possibile accedere all'ebraismo per una via diversa da quella dell'ortodossia e da quella di Israele.
C'è quindi una vera curiosità da parte del mondo ebraico e di una parte del popolo israeliano per questa amicizia con il rabbino Skorka.
E il fatto che lo accompagni in Terra Santa dimostra che il papa non attende passivamente di entrare in relazione con l'ebraismo attraverso lo Stato di Israele: ha un rapporto con l'ebraismo stabilito da molto tempo, il che è inedito.
Il papa suscita interesse per la sua capacità di comprendere l'ebraismo attraverso i propri mezzi, le proprie amicizie e la propria storia.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]