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Gesù, il mio allenatore democratico, pacifista e passionale

Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 14/05/14

Il popolare giornalista sportivo Carlo Nesti rilegge il rapporto tra fede e mondo dello sportIl linguaggio dello sport, e del calcio in particolare, è oggi sicuramente quello più parlato, basta dare un’occhiata alle visite delle pagine online e alle vendite dei giornali sportivi. Per questo, se pensiamo che di quest’operazione è autore Carlo Nesti, una di quelle voci che più hanno contribuito a definire nei decenni l’immaginario e il vocabolario degli appassionati di calcio, con i suoi interventi a Novantesimo Minuto e non solo, allora ci rendiamo conto del suo fascino. Nesti oggi oltre a fare il giornalista e lo scrittore è anche un blogger molto attivo, che sul suo sito (www.carlonesti.it) introduce e ospita conversazioni su temi di calcio e di attualità, di morale e di religione. Alcune di esse, probabilmente, gli hanno fornito alcuni spunti per arricchire le pagine di questa sua nuova fatica letteraria, Il mio allenatore si chiama Gesù (San Paolo edizioni, 2014). Il primo spunto, tuttavia, giunge certamente da papa Francesco, a cui è dedicato il libro. Nell’introduzione, infatti, viene citato il suo discorso ai giovani durante la veglia di preghiera a Copacabana, nel luglio scorso, dove erano comprese le seguenti parole: “Che cosa fa un giocatore quando è convocato a far parte di una squadra? Deve allenarsi, e allenarsi molto! Così è nella nostra vita di discepoli del Signore”. Noi di Aleteia abbiamo chiesto a Carlo Nesti di commentare per noi alcuni aspetti del libro.

Gesù allenatore: è solo una metafora?

Nesti: Questo è un libro che cerca di spigare il Vangelo attraverso lo sport mettendo insieme fede e sport a due livelli. Uno è appunto quello metaforico; però credo sia anche importante segnalare il livello che io definisco esistenziale. Dal punto di vista metaforico, ogni giorno della nostra vita equivale ad una partita che naturalmente si può vincere e si può perdere, e in questa partita per giocare bene ciascuno di noi ha bisogno di un allenatore. Naturalmente l’allenatore è colui che ci conosce meglio, perché è colui che ci ha creati, cioè Gesù, con il quale noi abbiamo la possibilità, nelle pause della “partita”, che possiamo trovare durante la giornata, di comunicare mediante la preghiera. Come dicevo, però, non vorrei sottovalutare l’aspetto esistenziale, nel senso che ogni valore dello sport di base equivale a una situazione della vita, e quindi può essere molto importante a livello educativo per i giovani, soprattutto se fosse presa maggiormente sul serio l’educazione fisica nelle scuole italiane. Faccio degli esempi: il rispetto dell’avversario è il rispetto del prossimo, il rispetto dell’arbitro è il rispetto della legge, lo spirito di squadra è il piacere della condivisione. Quindi ci sono tante cose trasmesse dallo sport di base che servono sicuramente sia per formare dei buoni cittadini, quando i bambini diventeranno adulti, sia per diventare buoni cristiani.

Che allenatore è Gesù?

Nesti: Ora, al di là della metafora, è una figura molto complessa. Io nel momento in cui l’ho immaginato allenatore gli ho trovato diverse caratteristiche, forse tre in particolare. E’ un allenatore democratico nei riguardi della squadra, cioè l’umanità, perché è un allenatore che concede il libero arbitrio. Non vuole scegliere ma vuole essere scelto da noi. E’ un allenatore pacifista perché come si sa, e qui naturalmente uso una frase arcinota, è disposto sempre a porgere l’altra guancia, come chiede a noi di fare, nei riguardi delle offese altrui. Però non è solo pacifista, è anche un allenatore passionale che è disposto a gettare in aria i tavoli dei mercanti del tempio se ritiene che il tempio non venga utilizzato come dovrebbe essere utilizzato. Quindi le sfaccettature sono molto variegate, come d’altro canto è diversa la figura umana di Gesù. Indubbiamente prevale il bene, ma questo non ci deve far credere che si tratti di un personaggio totalmente pacifista e permissivo, perché ci sono dei casi in cui interviene anche in maniera vigorosa. Come ad esempio quando non dà delle risposte agli scribi: verrebbe da pensare che Gesù debba rispondere tutto a tutti, e invece no. Assume degli atteggiamenti che rivelano una personalità molto spiccata e molto definita, alla faccia di chi poteva immaginare un quadro, come si direbbe oggi con un termine che io detesto, “buonista”. Gesù è molto più complesso.

Dunque ama il bel gioco e la fermezza: è una sorta di mix tra Mourinho e Spalletti?

Nesti: Mah, io le posso dire questo, che nella mia pagina Facebook io avevo lanciato un sondaggio per stimolare la gente e vedere che tipo di confronti facevano. Al di là del confronto con persone note, mi è piaciuto molto – e per questo l’ho considerato il vincitore nel concorso che ho indetto – l’immagine proposta da un lettore il quale, senza scomodare nomi che verrebbero spontanei tipo Prandelli, Ferguson o Ancelotti, ha scritto: “se Gesù tornasse sulla Terra come allenatore, lo sarebbe di una squadra semisconosciuta, di periferia, della quale allenerebbe i pulcini”. Questo m’è piaciuto molto perché istintivamente possiamo essere portati a pensare al Figlio di Dio che si sceglie una grande squadra per avere un’amplificazione maggiore. Invece il Vangelo ci insegna che Gesù, al di là del fatto di nascere in un posto che in quel momento era il crocevia delle varie civiltà, non ha mai fatto un ricorso obbligato agli “effetti speciali”. Quando faceva un miracolo chiedeva al miracolato o agli apostoli di non farlo sapere a nessuno. Mi è piaciuto perché è un paragone che coglie la dimensione di Gesù, che non è arrivato per spaccare tutto, ma per cominciare a farsi conoscere in un piccolo angolo della Terra, sperando poi che fossero gli altri, una volta salito in Cielo, a trasmettere dappertutto la sua parola.

E poi, l’idea dei pulcini, ci riporta al suo amore per i bambini?

Nesti: Certo, il lettore è sceso nel dettaglio dicendo “una squadra di periferia”, e questo ci fa pensare molto a papa Francesco, e poi di quale categoria? Non i più grandi, non la prima squadra, ma i pulcini, proprio per poterli allevare fin da bambini in un certo modo, ricordando la predilezione di Gesù nei riguardi dei bambini, dei deboli e dei poveri in modo particolare.