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Da Papa Paolo VI a Papa Francesco: perché i pontefici vengono in Terra Santa?

Month of Martyrs’ in Korea draws praise from Pope Francis – it

© Jeffrey Bruno / ALETEIA

Le blog de Frédéric Manns - pubblicato il 08/05/14

Cronistoria e significato teologico delle visite del Vescovo di Roma nella terra della Promessa

di Frédéric Manns

Con la visita di Paolo VI nel gennaio 1964 – ormai sono 50 anni – comincia una tappa nuova nella vita dei papi: tutti vogliono tornare in Terra Santa alle sorgenti della salvezza, o per riprendere l’espressione di Paolo VI, ritrovare il 5 Vangelo. Prima di Paolo VI nessun Papa era venuto in Terra Santa dopo la partenza di S. Pietro. Ritornare dalla basilica di S. Pietro alla domus ecclesia di Cafarnao, dalla Curia romana al lago dove Gesù ha chiamato i primi discepoli, è una sfida. Inginocchiarsi davanti al Golgota e vedere la tomba di Cristo vuota è un esperienza indimenticabile per chi è abituato al cerimoniale pontificio. Non si possono dimenticare le radici giudaiche della fede cristiana, anche se l’albero è cresciuto molto. Con il viaggio di Paolo VI in Terra santa comincia una nuova tappa anche per le agenzie di viaggio. Prima del 64 i gruppi che venivano stavano un mese in Oriente: con la nave facevano sosta ad Atene, poi Cipro poi la Terra Santa. Dopo il 1964 l’aereo è a disposizione dei pellegrini e si possono concepire viaggi molto più brevi di una settimana sul modello del viaggio di Paolo VI. Di fatti i pellegrinaggi di massa si sono sviluppati senza che i santuari fossero pronti ad accogliere tanta gente. Paolo VI e la grazia del concilio Vaticano II: Da Amman ad Amman La scelta del papa Francesco di venire nel 2014 vuole essere un ricordo del 50 dello storico pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Terra Santa. 
L’annuncio del viaggio di Giovanni Battista Montini, Papa dal 21 giugno 1963, rimbalzò il 4 dicembre dello stesso anno, durante il discorso finale fatto dal pontefice nella seconda sessione del Concilio Vaticano II. "Siamo così convinti che per ottenere un buon esito del Concilio si devono elevare pie suppliche, moltiplicare le opere e, dopo matura riflessione e molte preghiere rivolte a Dio, abbiamo deliberato di recarCi come pellegrino in quella terra, patria del Signore Nostro Gesù Cristo. (…) Vedremo quella terra veneranda, di dove San Pietro è partito e nella quale nessun suo Successore è mai tornato. Ma Noi umilissimamente e per brevissimo tempo vi ritorneremo in spirito di devota preghiera, di rinnovamento spirituale, per offrire a Cristo la sua Chiesa; per richiamare ad essa, una e santa, i Fratelli separati; per implorare la divina misericordia in favore della pace, che in questi giorni sembra ancora vacillante e trepidante; per supplicare Cristo Signore per la salvezza di tutta l’umanità."
Un mese dopo, il Papa atterrava in Giordania per tre giorni intensi di pellegrinaggio che lo portarono dal sito del Battesimo di Cristo, a Betania, ai Luoghi della Passione di Cristo (Via dolorosa, San Sepolcro, Getsemani), in Galilea (con soste a Nazareth, Cana, Tabgha, Cafarnao, Monte delle Beatitudini e Tabor), infine il ritorno a Gerusalemme con la visita al Cenacolo e per ultimo a Betlemme.



L’incontro con Atenagora, Patriarca di Costantinopoli, fu uno dei momenti particolarmente forti del viaggio ed ebbe luogo per iniziativa del Patriarca che, all’annuncio del pellegrinaggio, lo propose al Pontefice. Gli incontri furono due, il primo la sera del 5 gennaio, presso la Delegazione apostolica sul Monte degli Olivi, con una piccola rappresentanza di prelati; il secondo il 6 gennaio presso la residenza del Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, sul Monte degli Olivi. Fu questo secondo incontro ad avere una grande diffusione mediatica.

Vedere un Papa salire su un aereo per recarsi in Terra Santa fu una rivoluzione. Vederlo circondato da una folla in ogni suo spostamento, fu uno choc. 

Un Papa che domanda di vedere il «suo popolo», mantenuto a distanza a Nazareth per “motivi di sicurezza”, che visita un malato a casa sua, che lascia il Custode per andare a benedire un bambino paralizzato, che abbandona i Cardinali del suo seguito a colazione per riprendere, il più velocemente possibile, il cammino verso Cafarnao, tutto questo fu una sorpresa e una novità. Il pellegrinaggio fu ispirato dal Concilio Vaticano II con la sua volontà di ritornare alle sorgenti. 
 Giovanni Paolo II in Terra Santa nel anno del giubileo. Da Tel Aviv a Tel Aviv Il papa volle ricominciare il nuovo millennio da Gerusalemme. Una grande novità : visita a Yad washem, al muro occidentale, ai gran rabbini e al presidente d’Israele Paolo VI non aveva pronunciato una sola volta nei suoi discorsi il nome di Israele. Ma nel 1993 i rapporti ufficiali tra Israele e la Santa Sede furono stabiliti. Giovanni Paolo II desiderava visitare i luoghi storici della Bibbia. Alla ricerca di unità in quelle terre contrastate, ma cariche di memorie. Giovanni Paolo II ha fatto del «viaggio» uno strumento essenziale del suo ministero per il contatto con le chiese, i popoli, le culture. Ha espresso l’impulso del cristiano a uscire dal proprio mondo per incontrare i suoi fratelli e testimoniare il Vangelo. La sua lettera sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza manifesta il suo sogno di compiere un viaggio (o più viaggi) nei luoghi storici della Bibbia. È rivelatrice della «spiritualità geografica» di Giovanni Paolo II. Il Papa infatti aveva parlato di questa sua dimensione qualche anno fa, con alcuni giornalisti in aereo. «Il Papa deve avere una geografia universale […] Io vivo sempre in questa dimensione spostandomi idealmente lungo il globo. Ogni giorno c’è una geografia spirituale che percorro. La mia spiritualità è un po’ geografica» (D. Del Rio L. Accattoli, Wojtyla il nuovo Mosé, Mondadori, Milano 1988).


Il Papa intendeva andare pellegrino nei luoghi dove si conserva la memoria della storia della salvezza.
 I «luoghi santi», per i cristiani, sono qualcosa di originale. Per il cristiano ogni luogo è santo: «Dio è ugualmente presente in ogni angolo della terra, sicché il mondo intero può considerarsi ‘tempio’ della sua presenza» ribadisce il Papa. Gesù aveva detto alla Samaritana, che gli chiedeva su quale monte adorare Dio, che il Padre cerca adoratori in «spirito e verità»: «Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21). Il nuovo tempio è Gesù. Ma la salvezza cristiana ha innegabilmente una storia e una geografia: «La concretezza fisica della terra e le sue coordinate geografiche fanno tutt’uno con la verità della carne umana assunta dal Verbo», afferma Giovanni Paolo II. Ci sono luoghi della memoria di Dio. Questa è la visione cristiana del luogo santo: il pellegrino li visita per ricordare e venerare le orme di Dio. Per questo Giovanni Paolo II vuole andare prima di tutto in Terra Santa. Non certo per rivendicare il suo carattere cristiano. Anzi, nel suo testo, ribadisce di nuovo la condanna delle crociate. Il modello di pellegrinaggio di Giovanni Paolo II è quello di Francesco d’Assisi.
 Bisogna ritornare alla testimonianza del santo di Assisi, grande viaggiatore nel mondo del suo tempo, che volle varcare tutte le frontiere, anche quelle che sembravano più impenetrabili, come i confini dell’islam, allora considerato l’«impero del male». Francesco, voleva recarsi in Terra Santa e capì che si doveva trovare un rapporto nuovo con l’islam, diverso dalla guerra santa e dalle crociate. Fu una grande intuizione evangelica, rivoluzionaria politicamente e culturalmente. Francesco parlò ai musulmani e il suo vangelo in Egitto fu un pellegrinaggio di pace. Il dialogo interreligioso ha in Francesco un esempio intramontabile.
Giovanni Paolo II guarda ai figli di san Francesco e ai cristiani d’Oriente come ai fedeli che hanno voluto «interpretare in modo genuinamente evangelico il
legittimo desiderio cristiano di custodire i luoghi in cui affondano le nostre radici spirituali». Sono stati presso i luoghi santi con la testimonianza della povertà francescana e della liturgia d’Oriente. Giovanni Paolo II si connette a questi due grandi filoni della spiritualità cristiana. Egli va in Terra Santa con lo spirito di Francesco e con grande amore per i cristiani d’Oriente. Verso di loro c’è un grande desiderio di unità, che si concretizza in una proposta che il Papa fa con un tono sommesso e fraterno: «Sarei felice – egli afferma – se insieme potessimo radunarci nei luoghi della nostra origine comune, per testimoniare Cristo nostra unità e confermare il reciproco impegno verso il ristabilimento della piena comunione». 
Le divisioni, all’inizio della storia del cristianesimo, sono nate in Oriente e nel Mediterraneo. Da lì deve venire il segno dell’unità. Il Papa vuole l’incontro con gli altri leader cristiani alla luce dei Luoghi Santi, come un ritorno alla Chiesa indivisa. Nei Luoghi Santi, a Ur dei Caldei, patria di Abramo, al Sinai e al monte Nebo, nella città degli Atti degli apostoli, Damasco e Atene, il Papa pensa di ravvivare l’amore tra i cristiani e il dialogo tra questi, gli ebrei e i musulmani. 
Giovanni Paolo II chiede di «essere accolto come pellegrino e fratello». È una via ecumenica che il Papa indica alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese: farsi pellegrini è una via per ritornare fratelli. Ma egli pensa anche al popolo ebraico, a cui è legata tanta parte della storia della salvezza. La via del pellegrinaggio fa crescere «la coscienza dei vincoli che ci uniscono, contribuendo ad estinguere definitivamente incomprensioni che purtroppo hanno tante volte nei secoli amaramente segnato i rapporti tra cristiani e ebrei». D’altra parte Giovanni Paolo II è aperto al dialogo con l’islam. Gran parte dei cristiani d’Oriente vivono in paesi musulmani e lì sono i Luoghi Santi. Egli spera che il suo pellegrinaggio offra «una opportunità d’incontro». Del resto nel suo pontificato, il Papa si è recato diverse volte nei paesi dell’islam.
 Il pellegrinaggio apre al dialogo, anzi ai «dialoghi» che il Concilio Vaticano II ha voluto. Il Papa, concentrato sull’itinerario biblico, anzi sulle «orme di Dio», è attento agli uomini e ai popoli, dove sono i luoghi della memoria biblica. In un clima di preghiera, nella semplicità del pellegrino, matura quell’amore che è alla radice di ogni dialogo. Questa è la geografia spirituale di Giovanni Paolo II, sottesa a tanta parte del suo pontificato, della sua preghiera, dei suoi incontri. Forse questo documento del Papa spinge tutti i cristiani a guardare verso Oriente, verso i luoghi dell’origine, consapevoli che la nostra fede proviene da quelle terre. È un testo che accresce i legami tra la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, mentre ribadisce la fraternità profonda e la comune filiazione con il popolo ebraico. E, alla fine, pur nelle reali e insopprimibili diversità, mostra come ebrei, cristiani e musulmani sono tutti figli di Abramo. Egli è il nostro patriarca e il padre di tutti i credenti. Siamo così alle radici di quel comune cammino che ci riporta a guardarci come fratelli, proprio a partire da terre contrastate ma cariche di memorie. Benedetto XVI : la voce della speranza per il Medio Oriente: il magistero della Chiesa sulla pace. Da Tel Aviv a Tel Aviv Il pellegrinaggio in Terra santa è stato il più difficile tra i tre viaggi di Benedetto XVI. Non tanto per il peso dei paragoni, che lasciano sempre il tempo che trovano. La difficoltà vera stava nella disillusione che serpeggia ormai da tempo nella regione del mondo dove il Vangelo è risuonato per la prima volta: la fatica di un conflitto apparentemente infinito come quello tra israeliani e palestinesi; le difficoltà sempre maggiori vissute dalle comunità cristiane in tutto il Medio Oriente. In questo contesto Benedetto XVI si è proposto come «un pellegrino che conferma nella speranza».

L’immagine chiave nel 2009 la enunciò sul Monte Nebo, in Giordania, quando all’inizio del viaggio parlò di Mosè che da quell’altura poté vedere la Terra Promessa solo da lontano. «Siamo chiamati ad accogliere la venuta del Regno di Cristo mediante la nostra carità, il nostro servizio ai poveri e i nostri sforzi per essere lievito di riconciliazione, di perdono e di pace nel mondo che ci circonda – disse il Papa ai cristiani della Terra Santa. Sappiamo che, come Mosè, non vedremo il pieno compimento del piano di Dio nel corso della nostra vita. Eppure abbiamo fiducia che, facendo la nostra piccola parte, nella fedeltà alla vocazione che ciascuno ha ricevuto, contribuiremo a rendere diritte le vie del Signore e a salutare l’alba del suo Regno». In quel maggio 2009 seguirono giornate scandite da declinazioni anche scomode di queste parole: ai giovani di Betlemme, ad esempio, il Papa chiese «il coraggio di resistere ad ogni tentazione di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo», rinnovando «la determinazione a costruire la pace». Al presidente israeliano Shimon Peres, invece, confessò pubblicamente la sua tristezza per il «muro di separazione», altra tragica novità rispetto ai viaggi di Paolo VI e Giovanni Paolo II. «Mentre lo costeggiavo – disse Benedetto XVI – ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia, senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione». «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ascolta il grido degli afflitti, di chi ha paura, di chi è privo di speranza», aveva scritto nel biglietto deposto al Muro del Pianto o Muro Occidentale, abbracciando nella preghiera tutti quelli di cui in Israele e in Palestina non si parla mai. Parole di pace e di giustizia rivolte a tutti, ma affidate in prima persona alle comunità cristiane della Terra Santa. Da anni si parlava di come fermare l’esodo dei cristiani; lui ha scelto la risposta più impegnativa, convocando subito dopo quel viaggio il primo Sinodo per il Medio Oriente, celebrato a Roma nell’ottobre 2010. Perché al di là di tutte le sofferenze e le persecuzioni, è la capacità di guardare avanti e la forza della testimonianza cristiana l’unica vera roccia di salvezza, anche nelle situazioni più difficili. Tra le eredità che lascia al suo successore c’è la Via Crucis del prossimo Venerdì Santo le cui meditazioni saranno scritte da due giovani libanesi, guidati dal patriarca maronita Bechara Raï. L’ultimo suo appello a un Medio Oriente alle prese con calvari sempre nuovi a ritrovare nel cuore della fede la fonte più inesauribile della speranza. Il messaggio dei papi in Terra Santa Le omelie dei pontefici danno il contenuto spirituale dei viaggi. L’omelia di Paolo VI a Nazaret scritta dalla sua mano rimane un testo insuperato. Tre parole riasumono il messaggio di Nazaret : il silenzio, il lavoro e la vita di famiglia. Le sue omelie sono state pubblicate recentemente in un libretto di Don Alfredo Pizzuto: Paolo 6 in Terra Santa, Milano 2012. Giovanni Paolo II ha presentato Maria in chiave patristica come la nuova Sara, la nuova madre del popolo Cristiano, mentre Benedetto XVI parlava della cortesia di Dio che rispetta tutte le sue creature, anche le più piccole. Non conosciamo il messaggio di Papa Francesco che ci sorprende spesso. Francesco e il suo progetto: Da Amman a Tel Aviv Papa Francesco vuole fare un pellegrinaggio di solo tre giorni. Tre è un numero simbolico che ricorda il terzo girono della risurrezione del Maestro. Significa che vuole andare all’essenziale, alla proclamazione del Kerygma: Cristo è
morto, è risorto, perdona i peccati.

Il contesto geopolitico del Medio Oriente è cambiato con la primavera araba e la guerra di Siria che per i cristiani fu disastrosa. Ricorderete la sorte dei cristiani di Maalula, il villaggio dove si parla ancora aramaico, la lingua di Gesù. Il papa sembra determinato ad aprire un “buco sul tetto”, per dare fiato e visuale al processo di pace, nell’orizzonte paralizzato del medio Oriente: una promessa che agli occhi delle cancellerie, dopo la crisi siriana, ne fa il nuovo, incisivo protagonista della politica mediorientale. L’ingresso in scena del Papa venuto dall’America latina, imprevisto e imprevedibile, rappresenta una valvola insperata di decompressione, in un contesto bloccato. “Le paralisi delle coscienze sono contagiose. Con la complicità delle povertà della storia, e del nostro peccato, possono espandersi ed entrare nelle strutture sociali e nelle comunità fino a bloccare popoli interi”, ha detto Papa Francesco nella messa concelebrata con il patriarca copto Sidrak, esibendo un’attitudine interventista. Il papa si è messo in testa, meglio in cuore, di rimettere in movimento la storia della Terra Santa, dove hanno fallito i conducenti della Casa Bianca e dell’Europa tra lunghe soste e accelerazioni a tavoletta. Il passaggio più geopolitico della lettera del papa Evangelii Gaudium sembra pensato e scritto appositamente sul puzzle palestinese: “Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente…Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi…”. Iniziare processi: a differenza di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il viaggio di Francesco si colloca all’inizio del pontificato, anche se è dovuto a circostanze indipendenti dalla sua volontà. Non alla fine, come per Wojtyla nel 2000, e neppure a metà, come per Ratzinger nel 2009. Il suo attivismo sul “fronte orientale” non conosce pause. A meno di un anno dalla sua elezione ha già incontrato Shimon Peres il 30 aprile, Abdullah di Giordania il 29 agosto, Abu Mazen il 17 ottobre. Ha convocato a Roma il 21 novembre i patriarchi e ha mandato in Iraq come suo “inviato speciale” Giovanni Paolo II, attraverso una statua del papa polacco. Un discorso, pronunciato da Bergoglio a Gerusalemme, tra mura antiche e nuovi muri, che separano israeliani e palestinesi, potrebbe riportare la storia indietro, risvegliando negli Stati Uniti, sul finire del secondo mandato presidenziale, la voglia di sentirsi America, che nel 2000 spinse Clincton a forzare e sfiorare la pace, in quello che resta l’ultimo, autentico tentativo di soluzione del conflitto. Non si può dimenticare che la primavera araba ha significato persecuzioni e rigetti per i cristiani orientale. Se la Chiesa vuole respirare con i suoi due polmoni, non può abbandonare i cristiani orientali perseguitati a causa della propria fede. Una parola chiara sul dialogo autentico si impone oggi più che mai. Se non si deve pretendere tutto e subito, non si possono nemmeno lasciare le cose come stanno. Il papa non avallerà pertanto l’alibi che subordina la questione palestinese all’esito delle trattative con l’Iran: “Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza”, scrive ancora nell’Esortazione Apostolica. “Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme”: se Francesco non entrerà negli aspetti specifici, alzerà però la voce su quelli di principio, a cominciare dall’equità degli assetti territoriali e dal riconoscimento dello Stato di Palestina. La penna offerta in dono ad Abu Mazen e modellata sul baldacchino del Bernini indica che il pontefice affronta la sfida con lucida consapevolezza dei problemi a cui la pace si attorciglia, per poter essere sottoscritta. Non ultima la spirale di contraddizioni interne all’islam. Bergoglio teorizza non meno di Ratzinger il primato d’amore del cristianesimo. Tuttavia, come il santo d’Assisi davanti al sultano, trasferisce il confronto dalle aule universitarie e scende dalla cattedra. Sceglie il terreno della misericordia, quale categoria politica, su cui le religioni sono chiamate a misurarsi. “Ma c’è qualcosa di più alto dell’amore rivelato a Gerusalemme?”, si è chiesto a luglio in Brasile, mostrando che il pensiero dell’Oriente lo accompagna nei suoi ritorni a Occidente: “Nulla è più alto dell’abbassamento della croce, poiché lì si raggiunge veramente l’altezza dell’amore!”. Nonostante la imprevedibilità di Papa Francesco, il viaggio in definitiva conviene a tutti: arabi e israeliani, americani e russi. Gerusalemme rappresenta il “richiamo delle sorgenti”, una sete dello spirito alla quale nemmeno il vescovo di Roma può resistere e una strada che la Chiesa deve percorrere, anche fisicamente, oltre che in modo metaforico. Siamo ancora una Chiesa capace di riscaldare il cuore in mezzo alle rivoluzioni che ci impone Internet e IPad? Una Chiesa capace di ricondurre a Gerusalemme? Di riaccompagnare a casa? In Gerusalemme abitano le nostre sorgenti…Siamo ancora in grado di raccontare queste fonti così da risvegliare l’incanto per la loro bellezza in un mondo violento come il nostro?” Meglio mettere tra parentesi la Galilea, perché bisogna andare all’essenziale il kerigma: la morte e al risurrezione di Cristo significano il perdono dei peccati per i credenti, quindi un nuovo inizio per il mondo globalizzato.

La Città Santa costituisce la meta di un viaggio interiore, interno a una strategia di rinnovamento ecclesiale. Ma esso può riservare impensati risvolti esterni, posando la mano del pontefice argentino, con il suo tatto e istinto riformatore, sul nervo scoperto della storia contemporanea.

 Lungo il fiume Giordano Bergoglio muoverà i passi, e metterà il piede, sulla faglia sismica tra Oriente e Occidente.

 Dovesse riuscire nell’impresa, rilanciando la pace, colmerebbe all’istante un vuoto che il pensiero del mondo, non osa più sperare. Conclusione La pagina biblica dello scontro tra il piccolo Davide e il gigante Golia ci può ispirare qualche pensiero finale. La situazione attuale della Chiesa di fronte al mondo moderno che viene con Internet, IPad, Wifi ed altri mezzi somiglia a quella del piccolo David di fronte ad un gigante che fa paura. I Padri della Chiesa, Ippolito di Roma in particolare, hanno notato che David è andato incontro al Filisteo con un bastone, 5 pietre, e la fionda, in totale 7 oggetti, 7 essendo il simbolo della perfezione. Il Bastone è il simbolo della croce che la Chiesa deve proclamare, ossia il Kerigma, le 5 pietre sono il simbolo dei 5 libri del Pentateuco e la fionda il simbolo dell’unico comandamento che Gesù ha dato, il comandamento dell’amore. Con questi oggetti il Cristiano può vincere il gigante Golia. E per ricordare questa verità e questa speranza che Papa Francesco va in Terra Santa.
 


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