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Anche noi, semplici peccatori, possiamo «benedire» il Signore?

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CC Paul Galbraith

Novena.it - pubblicato il 05/05/14

Come va intesa la frase, che ricorre in più occasioni nei Salmi, «Benedici il Signore, anima mia»?

Si legge nei Salmi, più volte (ad esempio 102,103,134,144) la frase «Benedici il Signore, anima mia». Capisco ovviamente l’invocazione di ringraziamento da parte nostra a Dio; ma come può essere che noi (e con noi le nostre anime) peccatori si possa benedire il Signore? Non mi sembra di esserne degni, né di averne la facoltà. Grazie per questa rubrica e per la risposta che vorrete darmi.

Alberto Zampieri

Risponde suor Giovanna Cheli, docente di Sacra Scrittura, alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Da sempre il termine «benedizione» e l’azione del «benedire» esprime un atteggiamento religioso, cioè un rapporto tra l’uomo e il soprannaturale attestato in ogni cultura ed esperienza religiosa. Tutto sta nel vedere cosa s’intende per «benedire», partendo dal fatto che la domanda denota già un’idea di benedizione. Si dice che si comprende la benedizione dell’uomo verso Dio nel senso del «dir bene» di lui, come già il termine latino sottintende (bene-dicere), più precisamente nel senso di ringraziare Dio e lodarlo per tutti i suoi benefici. La difficoltà nasce quando nella domanda si pone la questione dell’attitudine necessaria a benedire, o come si dice, «l’esserne degni». Implicitamente s’intende: com’è possibile che io dica bene di Dio se la mia vita, la mia anima, i miei pensieri non si trovano in linea con il comandamento dell’amore?

Da questo punto di vista è chiaro che occorre evitare forme d’ipocrisia nel nostro rapporto con Dio, ma per far questo basta guardare la sua magnificenza e il suo amore consapevoli della nostra piccolezza, lasciando che il «dir bene di lui» ispiri la nostra vita proprio a partire dalla nostra inadeguatezza. In questo modo colui che benedice con autenticità Dio sente che la sua stessa preghiera è una benedizione, perché da essa scaturisce un richiamo vitale alla comunione con Dio, a vivere sulla sua lunghezza d’onda. In altri termini chi benedice Dio, acquista la consapevolezza di esser da lui «bene-detto», invitato alla sua amicizia. Le cose si complicano quando il lettore dice: «non abbiamo facoltà».

Non so se con questa espressione si vuole intendere qualcosa di specifico, così come nella vita liturgica ordinaria vediamo che è il sacerdote che benedice, oppure se si pensa che la benedizione è una trasmissione di forza, un augurio che incrementa positivamente la vita, una capacità o potere che appartiene solo a Dio e che lui stesso concede a qualcuno in vista di un servizio certo non autoreferenziale.

Se s’intende questo, allora occorre tener presenti alcuni aspetti che ci vengono dalla Scrittura e dalla tradizione liturgica che la chiesa ha da sempre custodito. Sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento si trovano molti esempi di benedizione discendente, da Dio nei confronti dell’uomo (come sulla prima coppia in Gen 1,28; sono discendenti anche le benedizioni di uomini su altri, Isacco benedice Giacobbe, Gen 27, 27-29, Elisabetta benedice Maria, Lc 1,42); oppure di benedizione ascendente dagli uomini a Dio (come nei salmi citati dal lettore o l’euloghia della lettera agli Efesini 1,3-4).

Qualunque sia il tipo di benedizione, la Sacra Scrittura dice due cose fondamentali: Dio solo è depositario e dispensatore di ogni benedizione e quando l’uomo benedice Dio è per ringraziarlo di ciò che Lui è o fa. Ogni benedizione ascendente ha sempre il suo principio in Dio e non nell’uomo, come una risposta a Dio che «ci ha amato per primo».

Per questo l’uomo sollecita la benedizione di Dio, perché sa che tutto dipende da lui; d’altronde Dio benedicendo l’uomo, lo abilita a sua volta a benedire; così egli sperimenta che l’unica sua «facoltà»è proprio quella di esser benedetto da Dio. In altri termini non avremo nessuna facoltà di benedire Dio se Dio non ci avesse benedetto per primo.

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