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Intimità spirituale e intimità familiare

Intimità spirituale e intimità familiare (painting) – it

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Dimensione Speranza - pubblicato il 29/04/14

L’esperienza della fede e le trasformazioni dello stile nelle relazioni familiari

1. Introduzione

Le riflessioni che seguono nascono da tre percorsi differenti e senza troppi punti di contatto, almeno in apparenza. In realtà un punto di contatto c’è (almeno uno) e si tratta di qualcosa che mi pare decisivo: la vita. Sarà pur banale ricordarlo, ma giungo ad affermarlo senza alcuna modestia e perfino con una certa ostentazione: punto di partenza, contesto e in definitiva punto di arrivo delle cose che qui vorrei proporre è l’esperienza. Quello dell’esperienza concreta mi pare il modo più cristiano che abbiamo di procedere e validare le nostre affermazioni. Non già per offrire facili soluzioni, stratagemmi o, peggio, ricette, ma per quella fedeltà alla vicenda dell’uomo, della donna e delle loro relazioni che nella logica del mistero di Cristo dà credito alla storia come spazio di verità della persona umana. Mi piace tutto ciò che evangelicamente parla all’esperienza umana e mi viene da dire che se non parla all’esperienza forse non è troppo cristiano.

Vorrei dunque tracciare per sommi capi i tre percorsi di riflessione e successivamente mostrare a quali conseguenze interessanti si possa giungere dal loro intreccio per l’ambito che è a tema e che riguarda la vita familiare.

2. Tre percorsi di riflessione

2.1 Livelli di comunicazione nella coppia

Il primo percorso nasce dall’esperienza pastorale, soprattutto parrocchiale, ma anche dalla semplice condivisione e dall’amicizia con molte persone sposate, compresi i miei fratelli, che sono quattro, e i rispettivi coniugi (oltre ai miei dieci nipoti). Il confronto e le conversazioni con molti di loro mi hanno portato a rilevare un aspetto interessante del rapporto di coppia che oggi come oggi mi sentirei di ritenere almeno statisticamente significativo. E si tratta di questo: marito e moglie, anche nelle coppie più affiatate, anche nelle coppie nelle quali nonostante gli inevitabili conflitti esiste una buona e perfino ottima comunicazione, possono riuscire a parlare di tutto, ma proprio di tutto, anche delle questioni più intime e per perfino apparentemente più imbarazzanti. Eppure tutto ciò non garantisce che esista un’analoga intimità per quanto riguarda la propria esperienza di fede. Spontaneamente (o in astratto) vent’anni fa avrei pensato che se nella vita di coppia è accettabile un percorso progressivo nella comunicazione di quanto vi è di più intimo, all’ultimo posto, quasi come punto di arrivo, si trova tutto ciò che ha a che fare con la sessualità, intesa nel suo versante non troppo frequente dell’ascolto reciproco e perciò anche verbale dell’esperienza. Invece oggi dovrei dire che non ho trovato conferma (ripeto: almeno con significatività statistica) a quella implicita ipotesi di partenza. Non di rado accade che, invece, in quell’ultimo stadio della comunicazione si trovi proprio l’esperienza della fede, in tutte le sue modalità e anche in quella al negativo che è l’ateismo.

2.2 Una scoperta a partire dai test proiettivi

Il secondo percorso ha a che fare con un tema che apparentemente si trova piuttosto distante dalle riflessioni che qui sto conducendo. Si tratta dei test proiettivi. I test proiettivi sono… test, appunto, che vengono somministrati all’interno di un percorso di valutazione della personalità o di valutazione psicodiagnostica. I termini sembrerebbero sospingerci lontano, perfino in un mondo un po’ esoterico, ma le cose non stanno così. Un test si qualifica come "proiettivo" là dove offre a colui che lo affronta uno stimolo non strutturato, cioè estremamente vago. A quel punto, la reazione allo stimolo "proietta" il mondo interiore sullo stimolo, giacché questo, appunto, è talmente vago, da non avere consistenza propria. Da ciò (seppure con tutta la cautela che si deve avere, nella consapevolezza del fatto che, comunque, il test proiettivo rimane uno strumento e nulla di più) abbiamo molti dati sull’approccio che la persona intrattiene con la realtà.


In questi anni ho somministrato molte volte i test proiettivi (in particolare Rorschach e TAT), e i risultati sono stati per me molto stimolanti perché mi hanno quasi costretto a rivedere il modo in cui… pensavo che "gli altri" vedessero il mondo. Un approccio spontaneo al tema, in precedenza, era del tipo seguente: le cose del mondo sono, tutto sommato, le stesse per tutti; a partire dalle prospettive o dai gusti (dunque fondamentalmente dalla coloritura affettiva delle esperienze) sono in evidenza aspetti diversi della medesima realtà. Sarebbe come dire: è chiaro che tutti vedono, o potrebbero vedere, le stesse cose; solo che certuni (per questioni di sensibilità personale o di gusto, appunto) ne privilegiano alcune rispetto ad altre, o ne selezionano alcuni aspetti a discapito di altri. Dopo aver esaminato centinaia di protocolli di test proiettivi ho dovuto cambiare idea. Nel test di Rorschach, ad esempio, ci sono alcune macchie che sono (intenzionalmente) più strutturate di altre. Da ciò è più probabile che il soggetto a cui il test viene somministrato fornisca delle risposte che ricorrono con una elevata probabilità statistica. Effettivamente, dopo aver somministrato il test a venti persone e aver ottenuto per quella tavola «più strutturata» una risposta interna a quel repertorio di risposte probabili, ci si aspetterebbe che per il ventunesimo le cose non vadano troppo diversamente. E invece no.

Che sia il ventunesimo, il trentaquattresimo o il novantesimo, non importa. Ne basta uno che vede tutt’altro e… come la mettiamo?

E il gusto non c’entra. A cambiare è proprio l’approccio cognitivo complessivo, rispetto al quale, certo, anche la componente emozionale non è (o può non essere) secondaria; ma allora, il mondo «di fuori» "realmente" è un mondo diverso per ciascuno. E non è solo questione di prospettiva, di gusto, di coloritura affettiva, etc. Cambia la cognizione; cambia il mondo, cioè tutto.

2.3 Mistica al maschile e al femminile

Il terzo percorso sembra avere ancora meno a che fare del secondo, che già non prometteva bene…!

L’esperienza dei mistici cristiani mi ha sempre affascinato sin da quando ero studente. Penso che, soprattutto da giovane studente, ciascuno coltivi le proprie passioni, magari assolutizzandole un pochino, quando probabilmente le ragioni per cui un ambito diventa lo spazio privilegiato di una ricerca possono essere del tutto occasionali. Insomma non è detto che la scelta di uno scritto o di un autore corrisponda all’esito di un discernimento oculato. Talora accade che la scelta sia dettata da ragioni del tutto fortuite ed estrinseche. L’adulto probabilmente fa esattamente la stessa cosa, ma le ragioni possono essere diverse. Forse gli è mancato poi il tempo di allargare i propri orizzonti, oppure – cristologicamente, appunto (ha colto la logica del frammento e ha fatto la scoperta che non sempre l’allargamento degli orizzonti allarga la conoscenza dell’esperienza). Ad ogni modo, nell’accostamento dei mistici (penso per ragioni inizialmente del tutto fortuite) mi sono imbattuto in Teresa d’Avila e credo, in seguito, di non essermi mai troppo allontanato da lì. Ovviamente qui mi limito ad aprire una piccola finestrella, giacché quanto si potrebbe contemplare in una panoramica appena un pizzico più allargata sarebbe già di una vastità e di una complessità realmente insostenibili.

Fin da subito, nell’accostamento di una figura spirituale come Teresa d’Avila, non può passare inosservato e tanto meno può essere trascurato il legame, affettivo, di amicizia, ma anche di confronto teologico e spirituale che la grande Teresa ebbe con, l’allora più giovane, ma non certo meno grande, Giovanni della Croce. Credo che fra gli studiosi sia condivisa la persuasione di un debito reciproco che ciascuno dei due santi del Siglo de Oro spagnolo conservi nei confronti dell’altro1, eppure… Sin dagli inizi mi stupiva leggere di questa relazione e, allo stesso tempo incontrare letture estremamente differenti. Ovviamente si può facilmente obiettare ad una simile constatazione, semplicemente considerando che un autore non per il fatto di interpellarne un altro deve da ciò mutare il proprio approccio; ma qui non si tratta soprattutto di genere letterario, di stile, bensì di due teologie che appaiono diverse al punto che talora un profano potrebbe perfino pensare che si parli di due "cose" differenti. Eppure si parla dello stesso Dio. Oggi, sostenuto da alcuni autori2, ma pure da quanto andavo raccogliendo in ciò che ho evidenziato nel secondo percorso di riflessione, mi sento di dire che la differenza è precisamente nel genere sessuale3.


3. «Dire Dio» e genere sessuale

Io credo che qui dietro ci stia una riflessione teologica che meriterebbe di essere approfondita e che, anche in questo caso, mi limiterei a introdurre per sommi capi.

Indubbiamente l’identità trinitaria del Dio cristiano rappresenta una delle concettualizzazioni più interessanti e allo stesso tempo più ingombranti per l’esperienza cristiana. Ingombranti, perché il tentativo di procedere deduttivamente dalla nozione di Trinità all’esperienza del Dio trinitario si rivela, a mio parere assolutamente fallimentare se non si focalizza precisamente su ciò che la nozione stessa di Trinità sta a dire: e cioè che, in qualche misura, una tale nozione ha la pretesa d’incorporare in se stessa l’esperienza e non invece di fare dell’esperienza di Dio un momento secondo di quella nozione4. In questo senso, ancora una volta, ad essere ingombrante è una cortocircuitazione storica della nozione di "persona". In tal modo, agendo per metafora, esperienzialmente non sembra troppo difficile almeno ricorrere agli "oggetti", in senso psicoanalitico (vagamente e letteralmente "transazionali", in senso winnicottiano), del Padre e del Figlio, ma quando entra in scena lo Spirito Santo sono guai! Ed è singolare questo se consideriamo quanto la stessa Scrittura utilizzi per lo Spirito Santo un universo simbolico totalmente diverso da quello utilizzato per il Padre ed il Figlio. La nozione di persona, almeno nell’attuale contesto semantico, assai difficilmente salva quella distanza scritturistica. Mi domando se la cosa sia di poco conto e se il semplice rimando al dogma trascurando la posizione biblica non rischi di fabbricare un piccolo mostro ermeneutico.

Vorrei dire: la struttura trinitaria del Dio cristiano più che mettere in evidenza un’improbabile forma di coabitazione "fra tre", evidenzia la partecipazione storica della persona umana alla realtà di Dio, nella persona di Cristo.

Mi sono chiesto molte volte come mai, almeno dal punto di vista della struttura dei testi, al centro dei sinottici si trovi la professione di fede di Pietro, ma preceduta da quella «strana» richiesta di Gesù: «Voi chi dite che io sia?»5. Banalmente mi domando: perché lo voleva sapere? Non sarà che nella kénosis del Figlio ci sta anche la consegna di sé alla rappresentazione storica della persona, perché questa, nella logica del mistero trinitario è più che rilettura soggettiva di una verità oggettiva? Sarebbe come dire: la verità del Figlio, precisamente a partire dalla struttura trinitaria di Dio, è già nell’ "interpretazione"(in senso ricoeuriano) della persona umana. Ovvero: nella prospettiva della kénosis, il Figlio è ciò che la persona umana "dice" di Lui non perché necessariamente la persona umana dica il vero, ma perché essenzialmente è kenotica la natura del Figlio.

4. Comunicabilità e incomunicabilità

Queste considerazioni sono per giungere a dire ciò che interessa lo specifico di questa riflessione. La relazione con Dio, l’esperienza della fede, l’esperienza spirituale cristiana non sono del tutto comunicabili perché il Dio "detto" è sempre un Dio "interpretato", non per questo meno vero, ma certo diverso da persona a persona e specificamente diverso in ragione del genere sessuale6. Certo esiste una differenza che potremmo chiamare di tipo qualitativo e una differenza di tipo quantitativo. Ovvero: la possibilità che il "dire Dio" consegni un Dio diverso dipende anche dal grado di prossimità all’interno del quale quel nome è pronunciato. Eppure quanto più cresce l’intimità, dunque la personalizzazione dell’esperienza cristiana, tanto più l’esperienza si qualifica e da ciò si differenzia.


4.1 Maschile e femminile di fronte a Gesù

Anche qui, ancora una volta, non può essere trascurato il fatto che nei Vangeli la relazione che Gesù ha con le donne sia notevolmente diversa da quella che egli ha con gli uomini. E non si tratta di una differenza di tipo quantitativo, anzi. Gesù ha molte relazioni con il mondo femminile, talora "sconvenienti" rispetto all’impatto che avrebbero potuto avere (e che talora effettivamente avevano) all’interno di quel contesto culturale. Dunque, se appare vero che la differenza può essere ricondotta anche a ragioni di tipo culturale, queste non appaiono troppo vincolanti per l’uomo Gesù che in non poche circostanze mostra di sovvertirle. Ciò è a dire che se, ad esempio, appare sostenibile l’ipotesi secondo la quale la scelta di chiamare come discepoli dei maschi sia stata dettata da ragioni di tipo socioculturale, allo stesso tempo la cosa non dovrebbe condurre troppo sbrigativamente a concludere che il genere sessuale rispetto al ministero dell’apostolo sia indifferente in un contesto culturale in cui non sussistono più condizioni analoghe a quelle di allora.

4.2 Incomunicabilità strutturale dell’esperienza di Dio

Credo che tutto questo sia ancora una volta nella logica della reciprocità fra maschile e femminile. Allo stesso tempo, però, ciò che l’altro o l’altra potrebbe comunicarmi mi dice di un orizzonte del quale, tuttavia, potrei non scorgere nulla. E questo – come ho detto – non per difetto di comunicazione, ma per una diversità strutturale nei processi di cognizione.

In realtà, proprio per tutte le considerazioni fatte sin qui e che hanno evidenziato come alla radice di una tale diversità vi sia precisamente un diverso approccio cognitivo, strutturalmente connesso con il genere sessuale, anche l’intimità coniugale non si distanzia troppo da un tale dinamismo. In altre parole: l’altro conosciuto nell’intimità e, da ciò, la stessa realtà dell’intimità non corrispondono alla medesima esperienza pur essendo vissuti all’interno della medesima esperienza.

Anche questo è importante perché, ancora una volta, porta a considerare che maschile e femminile non sono complementari, ma reciproci. La differenza non corrisponde a una mera sfumatura terminologica.

Tuttavia dell’esperienza dell’intimità coniugale due sposi possono parlare (ancorché riconoscendo un limite cognitivo strutturale) a motivo del fatto che partecipino in quel momento della medesima realtà. Quando, invece, essi intendono comunicare di quell’esperienza che è Dio, essi non possono fare (se non in modo ana1ogicamente debole) la stessa cosa, giacché ciascuno non partecipa direttamente della medesima esperienza vissuta dall’altro.

5. Relazione e solitudine

Ritengo che la svolta interpersonale della psicoanalisi rappresenti una vera e propria rivoluzione copernicana per la psicologia e, all’interno di questa, per la clinica, ma poi, come del resto è accaduto per la psicoanalisi freudiana, con ricadute importantissime per l’antropologia e (almeno così credo o forse auspico) anche per la teologia. Sappiamo come il punto di partenza della psicoanalisi freudiana fosse intrapsichico fondamentalmente monopersonale. In un certo qual modo anche l’approccio sociale, che la prima psicoanalisi non aveva comunque ignorato, finisce per procedere da una tale impostazione fondamentale. La svolta interpersonale, fino alle attuali scuole intersoggettive, sottolinea il carattere strutturalmente relazionale anche di quelle istanze della personalità che perfino nel senso comune sono riconosciute come proprietà del singolo: l’identità, la personalità, i meccanismi di difesa, etc. Tutto ciò è buono e importante e offre un notevole contributo teorico anche per un raccordo con gli approcci sistemici alla personalità che in non poche situazioni della clinica, oltre che efficaci, non possono non finire per insinuare almeno un’ombra di sospetto sulla pretesa teoretica omnicomprensiva della psicologia individuale.


Allo stesso tempo, però, una simile acquisizione credo non possa giungere a sovrapporre "identità" e "relazione". Lo sviluppo umano, infatti, suggerisce un percorso interessante e drammatico. Per quanto l’immagine di un’architettura intersoggettiva sia interpretazione convincente delle strutture portanti della nostra personalità, lo sviluppo assiste non solo alla crescita e alla trasformazione di una tale architettura, ma pure alla perdita di alcuni suoi elementi fondamentali. Dall’esperienza evolutiva della morte dei propri genitori (di cui i manuali di psicologia dello sviluppo non parlano o parlano poco), fino all’evento stesso del proprio morire, al crescendo delle interiorizzazioni si affianca la loro dissoluzione. In sostanza: lo sviluppo è sì crescita e trasformazione della strutturale intersoggettività della personalità e, da ciò, dei suoi elementi fondamentali, ma, allo stesso tempo, è anche essenziale solitudine, fino all’esperienza in assoluto più solitaria che è il proprio morire, anticipato evolutivamente dalla morte dei propri cari7.

6. La nostra cultura di fronte al limite

Credo che focalizzare o almeno rendere consapevole questo stato di cose sia oltremodo importante anche per la vita di coppia in un contesto come il nostro, il quale esalta (positivamente) la comunicazione, ma con il rischio di inserire in quella esaltazione una pretesa che le proviene dalla cultura e che finisce per ignorare quel limite strutturale. Andando incontro così a un’inevitabile frustrazione che, a quel punto però, potrebbe essere ricondotta alla cattiva qualità della relazione, quando invece le cose potrebbero non stare affatto così.

Vediamo meglio.

Il rapporto con il limite costituisce una questione antropologica fondamentale, la stessa che muove l’autore biblico alla composizione della scena del giardino8, nella quale la figura dell’albero nella prospettiva della creatura non rappresenta l’assegnazione dello spazio vitale, ma la sua delimitazione, appunto, gettando da ciò un’ombra di sospetto sulla creazione e in definitiva su Dio stesso e le sue intenzioni.

Sono ovviamente diversi, tuttavia, i modi nei quali le culture hanno inteso il rapporto con il mondo del limite così con "discorsi", i miti, le narrazioni e le metafore che l’hanno riproposto nel corso dei secoli.

Niente di nuovo, dunque. Eppure ritengo che la nostra attuale cultura occidentale intrattenga un rapporto peculiare e problematico con il limite avendo non soprattutto inteso insinuare un sospetto su Dio, ma assai di più, avendolo estromesso dalla prassi. Non già cancellato o negato, che sarebbero operazioni assai più complesse e impegnative per un tempo "debole" come il nostro. "Estromesso" significa infatti, per molti versi, qualcosa di più insidioso. Non significa assumere che Dio non c’è, lasciando a quel punto, comunque, aperta la questione del limite, ma comporta piuttosto, in qualche misura, il suo "declassamento". In tal modo, però, la questione esistenziale del senso e del limite, almeno nella prassi, finiscono per perdere la loro consistenza o, peggio, si pretende illusoriamente di fare come se non ci fossero. Invero, una tale assunzione l’ateismo non può nemmeno permettersela.

Ora, proprio lo spazio che la nostra cultura assegna alla sessualità si rivela paradigmatico di una tale pretesa. La sessualità infatti, di suo, «è per eccellenza l’ambito del richiamo alla "castrazione" e alla finitezza. La sessualità, benché spinga, o perché spinge, le persone alla ricerca dell’altro, è una ferita, definitiva, inflitta all’onnipotenza infantile»9; ma di fronte a un tale stato di cose ci si muove verso un allargamento dello spazio della pretesa, imponendo illusoriamente la revocazione del limite, in molti modi: dalla ricerca sessuale dell’altro "uguale" o dell’altro "virtuale", che sembrano ampliare i confini dell’io, alla sovradeterminazione della sessualità genitale nel rapporto (eterosessuale o omosessuale che sia) che sembrano estendere il potere dell’uno sull’altro.


Assisto, e talora ne sono direttamente coinvolto, ad una serie frequente di richieste di incontri su tematiche che hanno a che fare con la comunicazione nella coppia. Nulla da dire e anzi, di più, si tratta di una questione che va tematizzata e incoraggiata. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di segnalare (perché ritengo di averne fatto direttamente l’esperienza, a partire da singole domande o, più in generale, dalla modalità stessa di formulare i titoli delle riflessioni) che sotto sotto, a muovere quel bisogno di ragionare sulla comunicazione, ci sia anche la pretesa di non perdere il proprio potere sull’altro.

7. L’altro… oltre

Un testo recente (che ritengo assai pregevole) di Monique Selz10, psichiatra e psicoanalista, arriva ad esaltare il pudore come segno di «un limite fra gli individui [che sta] a dimostrare l’esistenza di un luogo interno del soggetto, requisito della sua libertà, ossia del suo pieno sviluppo individuale all’interno della collettività»11. Sarebbe come dire: siamo di fronte a una indisponibilità dell’altro in un tempo in cui invece l’altro vorrebbe essere reso sempre più disponibile. Trovo oltremodo interessante che da una psicoanalista possa giungere un richiamo del genere, considerando il fatto che la relazione psicoanalitica conduce inevitabilmente a uno svelamento di sé che, detto in altro modo, rappresenta un possibile attentato al pudore della persona.

Che l’evoluzione della vita di coppia possa portare a un cambiamento perfino consistente nel modo di sentire l’altro non è constatazione inedita. D’altra parte, e a motivo del mutamento delle istanze culturali, così come suggerito, ad esempio dalla Selz per la questione del pudore, ritengo che questa trasformazione del sentimento costituisca attualmente un fattore di problematizzazione, perfino grave, della relazione di coppia. Per procedere in modo più dettagliato e meno approssimativo, saremmo costretti a uno sconfinamento nei territori della sociologia e certo questo allargherebbe a dismisura la nostra riflessione. Allo stesso tempo, però (e pur accettando il rischio insito in ogni semplificazione) mi sento di affermare che dal punto di vista della psicologia dello sviluppo la nostra attuale cultura occidentale si presenta come meno capace, rispetto a quella di un passato nemmeno troppo remoto, di favorire la corretta esecuzione di alcuni compiti evolutivi. Alcuni risultati, credo abbastanza evidenti, di questo stato di cose sono la notevole complessificazione dello stadio adolescenziale e il cospicuo incremento delle patologie borderline della personalità.

Tutto ciò inevitabilmente rifluisce anche nella relazione di coppia. Mancanza o debolezza dei confini psichici, residui di onnipotenza narcisista, difficoltosa integrazione delle immagini di sé e dell’altro da sé…, sono alcuni dei dinamismi evolutivi "in cantiere" che più facilmente che in passato possono condurre la relazione affettiva e soprattutto quella d’intimità a diventare, inconsapevolmente, l’oggetto di processi d’interiorizzazione (almeno parziale) ancora attivi e non invece l’oggetto di un incontro con l’altro, intimo eppure "separato", e che tale deve rimanere. In altre parole: l’inizio di una relazione coniugale o di convivenza là dove la ricerca dell’altro procede anche dal compito evolutivo aperto della sua interiorizzazione innesca .. facilmente un processo che è simultaneamente progressivo e regressivo. Anche in questo caso la constatazione non corrisponde a qualcosa di nuovo; d’altra parte, però, il movimento regressivo, nella misura in cui va ad intercettare consistenti vulnerabilità previe o domande aperte a livello evolutivo, più facilmente può condurre ad una cristallizzazione della posizione regredita. Quindi l’esperienza di coppia può condurre simultaneamente la persona su territori di maggiore maturità e maggiore immaturità. Da ciò sono più probabili che in passato (e magari dopo pochi anni, ma perfino mesi di matrimonio o convivenza) forme di scissione o dissociazione in personalità che in precedenza non avrebbero fatto sospettare un successivo esordio patologico12.


Più positivamente: la relazione coniugale può svolgere una funzione non dissimile da quella psicoterapeutica. In questo caso l’altro è investito in modo transferale di quei compiti evolutivi aperti di cui ho detto, ma poi (esattamente come accade o dovrebbe accadere in un percorso psicoterapeutico) a un certo punto, avendo esaurito quella funzione, potrebbe essere percepito come estraneo o perfino come estraneo da respingere, in modo analogo a quanto potrebbe accadere nei confronti del terapeuta a partire da una imperfetta o addirittura "cattiva" terminazione13 psicoterapeutica. In essa, il cliente/paziente rafforzando i processi relativi alla propria identità psicologica può giungere a sentire con disagio, ma perfino con ostilità, la relazione con colui che fu terapeuta. Questi, infatti, essendo stato testimone di una stagione di debolezza, ora sentita come inaccettabile (almeno da un punto di vista emozionale) da colui che fu cliente/paziente, viene percepito affettivamente in modo non positivo.

Inutile dire che la mancanza di una tematizzazione di questo stato di cose e (come se non bastasse) l’eccesso di credito dato dal senso comune agli aspetti emozionali di ogni vissuto, si rivela particolarmente insidioso per la relazione di coppia. Viene a crearsi un circolo perverso: l’attuale cultura occidentale contesta il rapporto con il limite; crea l’illusione di una ricaduta positiva sull’umano di una tale "liberazione"; in realtà favorisce l’indebolimento dei confini psichici della personalità del singolo destrutturando da ciò l’esperienza emozionale; in definitiva estromette il passaggio interpretativo di ogni "sentire", che è un processo "anche" etico, rendendo estremamente volatile il rapporto con l’esperienza. Affidato al solo livello emozionale infatti, il "bene" dell’esperienza non può che essere soggetto a molteplici oscillazioni.

Non idealizzerei la realtà della famiglia così come poteva essere vissuta trenta o quarant’anni fa. Allo stesso tempo, però, ritengo che la tutela del legame familiare (quale che fosse il contenuto) come compito implicito della relazione di coppia, la proteggeva e, in qualche modo, la strutturava.

8. Eros, disturbi sessuali e rilancio spirituale

Precisamente a motivo di tutte le riflessioni condotte su questo punto ritengo che quello dell’intimità (fisica, psichica e sessuale) sia un territorio nel quale finiscono per incontrarsi scontrarsi, per dialogare e lottare, molte delle questioni che ho cercato di mettere in evidenza, per quanto in modo iniziale e sommario. L’eros si presenta come spazio di un’intimità in grado di controllare (apparentemente) l’altro, in qualche modo di trattenerlo e forse di requisirlo. Credo faccia riflettere tutti coloro che lavorano al giorno d’oggi nel campo della terapia o della consulenza di coppia, la frequenza significativa di persone che presentano problemi di natura sessuale nella relazione con il proprio partner. In un certo qual modo la cosa potrebbe apparire perfino illogica. La nostra cultura occidentale ha liberato o ha creduto di liberare dalla colpa e dai tabù il legame sessuale. E non è raro che si sia incolpata la Chiesa o addirittura il cristianesimo di aver fomentato una cultura sessuofoba, responsabile, in anni non troppo distanti, di tutta una serie d’inibizioni o addirittura di nevrosi che probabilmente non hanno reso l’intimità sessuale un’esperienza riconciliata e soprattutto capace di contribuire a costruire il legame di coppia. D’altra parte oggi assistiamo a tutta una serie inedita di problemi o addirittura di patologie legate alla sessualità. Da ciò ha guadagnato legittimità scientifica e operativa la figura del sessuologo.


Evidentemente non mi sento di procedere in senso inverso. E non solo: in non pochi casi effettivamente il ricorso al sessuologo si rivela efficace, però… mi rimane un punto di domanda. Il ricorso al sessuologo talora si traduce nella ricerca di una "tecnica" in grado di trovare o ritrovare un know-how che nel concreto pareva arrancare; ma non sarà che in realtà il vero problema è antropologico? Non sarà che la pretesa (certo più o meno dichiarata o tematizzata) è di superare il limite posto da un "altro" la cui irriducibile alterità (che inevitabilmente è anche una alterità psichica e fisica) di fatto non sembra accettabile? Il risultato è che nella relazione sessuale una tale pretesa finisce per "spostarsi" nell’ansia della prestazione, con l’esito ulteriore di vivere il legame sessuale in modo almeno poco sereno, quando non difficoltoso o perfino disturbato. Ancora una volta, tutti coloro che lavorano nel campo della terapia o della consulenza di coppia credo riconoscano (almeno qui) una certa parificazione sessuale. Se ciò che in passato poteva derivare da quella presunta sessuofobia della cultura cristiana che andava a colpire (in modo almeno statisticamente significativo) la donna più che" l’uomo, attualmente le "nuove" patologie sessuali sembrano interessare indistintamente i due sessi. Considerando tuttavia che in questo campo il maschio indubbiamente può fingere di meno, sembra che sia proprio l’uomo a fare le spese maggiori di questo stato di cose.

Ritengo che quello dell’eros (incoraggiati in ciò anche dal magistero autorevole di Benedetto XVI14) sia invece un luogo autenticamente spirituale, con ricadute importanti sull’esperienza della fede, ma anche sui modi in cui, da tale passaggio attraverso l’eros, una coppia può trasformare anche la propria relazione familiare.

La presenza del limite, legata anche alla differenza dei generi sessuali, pone indubbiamente una sfida alla persona sollecita a un superamento. Si dà il limite perché pur all’interno di una medesima realtà e con il desiderio di una requisizione dell’altro, l’altro rimane sempre e comunque al di là di sé. A quel punto la persona si trova al bivio realmente drammatico che conduce alla ricerca spirituale o alla perversione. Perché lo scontro con il limite, se non si arresta nella semplice rassegnazione o nell’accettazione passiva, non può non interrogare nel senso di un "di più" che l’esperienza sembra non in grado di offrire. La perversione nasce dalla pretesa (illusoria) di superare il limite, ma come giungendo ogni volta per altra via al medesimo sbarramento. La via spirituale, invece, si offre precisamente a partire dalla consapevolezza che nell’indisponibilità dell’altro io partecipo di un mistero che ha la stessa forma dell’intimità affettiva, ma non coincide con essa e nemmeno rappresenta la sua semplice continuazione, né una sua proiezione o sublimazione. Scrive Clive S. Lewis: «Mai più crederò che la religione sia un prodotto dei nostri appetiti inconsci e insoddisfatti e un surrogato del sesso. I pochi anni che io e H. abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d’amore; l’amore in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e accogliente come infilarsi le pantofole. Non un angolo del cuore e del corpo è rimasto insoddisfatto. Se Dio fosse un surrogato dell’amore, avremmo dovuto perdere ogni interesse per Lui. Perché sprecare il tempo con i surrogati, quando si ha l’originale? Ma non è così. Sapevamo entrambi che volevamo qualcosa oltre l’altro – qualcosa di affatto diverso, il cui bisogno era affatto diverso»15.


9. Intimità e vita spirituale

Mi sia permessa una breve rievocazione autobiografica. All’inizio del tirocinio come psicoterapeuta, un professore dell’Università Gregoriana segnalava a noi "apprendisti un’eventualità che, successivamente, avrei effettivamente riscontrato nella pratica clinica. «La psicoterapia – diceva più o meno così – non è un percorso teso a tematizzare le questioni spirituali. Allo stesso tempo, però, se il percorso procede bene, a un certo punto la vita spirituale finisce per saltar fuori da sola».

Oggi mi sento di confermare: è proprio così.

La ragione "psicologica", a pensarci bene, non è troppo strana. Toccarla con mano, però, è un’altra cosa. E ritengo possa essere ricondotta alla seguente semplice constatazione: la vita spirituale ha a che fare con l’intimità della persona, con il cuore, con il nucleo profondo della personalità, che un buon percorso psicoterapeutico potrebbe andare a scoprire. Curioso che questa sia – almeno così credo – anche l’indicazione evangelica: perché il richiamo all’importanza di diventare come i bambini sembra corrispondere molto bene a ciò che in altro modo è la regressione terapeutica. Mentre non trovano altrettanta conferma evangelica tutte quelle sottolineature sulla fede "adulta", sulla fede "matura", sulla fede "oggettiva", e via dicendo, di cui abbiamo talora riempito la predicazione e la catechesi. Non voglio banalizzare e nemmeno trascurare l’importanza che anche la fede sia vissuta al medesimo stadio di sviluppo cui si trova la personalità del credente. Ritengo che il richiamo alla fede "adulta" abbia una sua validità e sia da ricondurre all’importanza che, come per gli altri livelli della personalità anche quello spirituale compia il proprio cammino. Eppure nell’invito/comandamento rivolto da Gesù non sembra richiesta l’"immaturità" del credere e tanto meno il congelamento dello sviluppo spirituale. Piuttosto la capacità di integrare il piccolo nell’adulto, l’affettivo nel cognitivo, l’ingenuità e lo stupore nella comprensione logica e nel rigore intellettuale. E in fondo anche questo è ciò che si premura di fare un percorso psicoterapeutico.

Riscontro nella vita pastorale (ma lungi da me l’intento di valutare la qualità della preghiera di nessuno) come questa "regressione adattiva" costituisca il punto di svolta dell’orazione. Se la preghiera si colloca al livello dell’intimità la persona coglie molto bene in che senso e in che modo espressioni quali "ascolto" "incontro" "affetto" e via dicendo non sono semplici immagini o addirittura iperboli, ma modi di raccontare un’esperienza che, per quanto "tradotta" e perciò inevitabilmente anche un po’ "tradita" dalle parole, realmente non si distanzia da quelle espressioni. Altrimenti la preghiera è "recita", "dire le preghiere" e forse pure «sprecare parole». Sull’inopportunità (e forse perfino l’inutilità) di questo modo di vivere la preghiera mi pare che Gesù stesso sia stato sufficientemente chiaro16.

9.1 Intimità spirituale e vita di coppia

Forse allora possiamo comprendere meglio in che modo una fede intima (una fede che sia, cioè, al di là della semplice affermazione dell’esistenza di Dio, ma che giunge proprio, alla profondità della persona) abbia importanti ricadute sulla vita di coppia. Precisamente per quanto esaminato sin qui, però, la ricaduta più importante credo sia proprio "nel modo della fede", ovvero: "sento, riconosco e accolgo" che l’altro è comunque al di là di me. I tre verbi segnalano tre passaggi importanti e non scontati, soprattutto in un contesto come il nostro, nel quale, appunto, ritengo che molte difficoltà coniugali nascano a partire dalla persuasione, più o meno tematizzata, che ti porta a credere che puoi controllare tutto ciò che vuoi e, da ciò, non sopporti che l’altro a te più caro possa sfuggirti . Nella prospettiva della fede, invece, il legame sessuale mi pare acquisti ulteriore importanza perché è un modo per sentire l’altro, ma sapendo, nel contempo, che l’altro è anche oltre.


Accettazione passiva (che però, in definitiva, significa anche il non riconoscere che lo spazio dell’intimità ha a che fare con la costruzione dell’esperienza spirituale), perversione (che rappresenta la deriva della ricerca del "di più" nell’illusione che io possa raggiungere e controllare l’altro, materialmente "accerchiandolo"), apertura al mistero dell’altro e, da ciò, al mistero stesso di Dio (quando faccio pace con la mia solitudine e godo – letteralmente – del bene che mi proviene da un altro che proprio perché mai giungo a possedere, costantemente mi si dona o mi è donato): sono le tre posizioni o i tre percorsi che posso intraprendere rispetto al modo in cui vivo l’intimità coniugale.

9.2 Custodire la distanza

Cosa potremmo dire del processo contrario? Ovvero: non solo dei modi nei quali la fede ricade sulla vita di coppia, ma anche di quelli attraverso cui la vita di coppia può custodire la fede. Innanzitutto, per le ragioni dette, ritengo che non sempre sia possibile un percorso di fede "della" coppia. Non è detto, infatti, che funzioni; e se non funziona non se ne dovrebbe addebitare l’esito necessariamente alla poca fede, ma nemmeno alla poca comunicazione interna alla coppia. A partire dalle riflessioni precedenti, giungiamo ad una prima considerazione che, senza tutte le cose dette sin qui, potrebbe apparire perfino paradossale. Ed è la seguente: custodire la fede in famiglia e (come dichiarato in apertura) nella vita di coppia, significa aver cura della fede dell’altro, ma questo vuol dire "dell’altro". In altre parole: l’altro può aver bisogno di spazi che non necessariamente condivide, ma che è importante che siano salvaguardati. L’apparente paradosso (ma a questo punto spero sia solo apparente) sta proprio qui: spontaneamente saremmo portati a esaltare, in nome della comunione, della condivisione e, da ciò, della comunicazione, tutto ciò "avvicina". In realtà (e pur conservando la bontà di quei movimenti verso l’altro) il primo passo, decisivo, è nella direzione "spazialmente" contraria, della distanza e del rispetto, a partire dalla differenza di genere, che implica un approccio cognitivo (e affettivo), e a partire dalla solitudine irriducibile dell’altro, che comporta una diversa modalità affettiva (e cognitiva) dell’intimità.

10. Conclusioni

La distanza e il rispetto mi sembrano oltremodo importanti anche per le ricadute che potrebbero esserci a livello allargato ad esempio, per quel capitolo altrettanto difficile (e perfino di più, di questi tempi) che è l’educazione alla fede dei figli. Se un figlio percepisce che la fede comporta una continua rottura dei confini della propria (o dell’altrui) personalità, facilmente, a livello evolutivo vivrà questo come minaccia e sarà pronto a liberarsene non appena gli sarà possibile e cioè, fondamentalmente, durante l’adolescenza.

In una direzione che "potrebbe" rivelarsi più fruttuosa, mi pare ci stia piuttosto la salvaguardia di spazi e tempi comuni, simbolici, ma in qualche modo un po’ "esteriori", anche per la coppia e complessivamente la famiglia. La tradizione orientale dell’angolo rosso e la messa domenicale come "evento" della famiglia mi sembrano una buona idea. La pretesa di pregare insieme, se non si è fomentata questa consuetudine nei primi tempi dello sviluppo dei figli, può rappresentare, invece, per loro, una violazione dell’intimità ed essere mal sopportata o addirittura respinta.

Più in generale vorrei rilanciare tre percorsi di riflessione, i quali (almeno così credo) potrebbero avere ricadute anche molto concrete all’interno dello stile familiare.

10.1 Il "timore di Dio" questo sconosciuto


In primo luogo mi domando se espressioni un po’ obsolete o comunque non troppo diffuse fra i cristiani di oggi non debbano essere riproposte, non nella materialità delle parole, ma nel contenuto. Mi riferisco, in particolare, al "timore di Dio". Certo una sua riproposizione letterale probabilmente traviserebbe il senso dell’espressione originale, la quale non aveva come obiettivo quello di giungere "ad avere paura di Dio", ma di ribadire che Dio, appunto, al limite puoi negarlo, ma non declassarlo. Quando affermo che "Dio non esiste" è di Dio, appunto, che sto parlando. Che sia il Dio della teologia o piuttosto quello della teoria dei sistemi, a questo livello poco importa; e nemmeno importa se si tratta del Dio di una filosofia che non uccide la metafisica. Non può sussistere, invece, alcun "timore" all’interno di una filosofia che riconduce Dio ad una funzione linguistica o, peggio, ad una variabile provvisoria in . attesa di ricognizioni "scientifiche".

10.2 Al principio di tutto: la misericordia

In secondo luogo, mi domando se come Chiesa non dobbiamo rimettere al primo posto quello sguardo di misericordia senza il quale Gesù non si è fatto conoscere, senza il quale, dunque, pare che la verità evangelica non possa entrare nel mondo. Non può esistere (cristianamente) nessuno spazio umano che sia estraneo al Vangelo, ma se ciò comporta che (dal singolo cristiano fino alla Chiesa) ci si senta investiti del compito di avere "sempre da dire" su tutto, in particolare di questi tempi nei quali obiettivamente non poche istanze portate avanti dal cristianesimo vengono contrastate quando non irrise, non si rischia di finire per comportarsi esattamente come quella "cultura del controllo" che pretenderebbe aggirare il mondo del limite? E non si correrà un rischio, assai più pesante, di mostrare un volto di Chiesa che non ha più misericordia soprattutto con coloro che per ragioni diverse si chiamano fuori?

10.3 Obbedire alla storia

In terzo luogo, in un mondo fortemente virtualizzato quella differenza strutturale e ineliminabile nei modi di conoscere la realtà può esasperarsi sino a diventare conoscenza di mondi paralleli e non comunicanti. Ritengo che uno stile autenticamente cristiano, oggi, in famiglia, cominci anche dalla riscoperta della concretezza delle cose. Affinché, pur nella diversità delle rappresentazioni individuali (che è, appunto, inevitabile) si giunga a interagire con ciò che è a contatto, il più possibile con i tempi, gli spazi, le cose, le persone, così come sono. La diversità dell’altro (che è anche sessuale)17 allarga la conoscenza che io ho della medesima realtà e anche se non prende nemmeno deve prendere) il posto della mia, dovrebbe condurmi a considerare che ciò che io vedo, sento, sperimento, non è l’ultima parola sul mondo, sull’altro, su Dio stesso. Se tuttavia, l’interazione avviene con mondi fittizi, allora rischiamo di non avere più un mondo reale con cui interagire. Da ciò anche la condivisione e perciò la comunicazione rischia diventare impossibili o insostenibili, perché si perdono i punti di contatto.

Faccio un esempio concretissimo: la scelta di andare in vacanza in un paese dell’Africa o dell’America Latina perché il mare è bello e perfino più bello di quello di casa nostra e perché il costo del viaggio paradossalmente è anche minore, non è ovviamente una scelta "sbagliata", però… ciò che vedrò non sarà "ciò che realmente è", ma una porzione di occidente virtuale in un contesto di clima, di costi, etc., di cui l’occidente non dispone, in questa stagione dell’anno o… mai.

Il rischio (anche educativo) è quello di giungere a pensare che sia il mondo a seguire me, e non viceversa. Certo il tour operator non mi mostrerà gli sterminati quartieri di baracche delle periferie, a poche centinaia o forse decine di chilometri dalle spiagge incantate. Eppure il mondo "così com’è", è anche quello, anche se da ciò ciascuno vedrà e vivrà un’esperienza diversa da ciascun altro.


Ritengo di non esagerare se individuo nell’obbedienza alla istoria, "al patire" il mondo così com’è, il primo compito del cristiano, a imitazione di Cristo18.

Stefano Guarinelli – Psicologo, psicoterapeuta, docente di psicologia pastorale presso il seminario Arcivescovile di Milano.

Stile di vita della famiglia cristiana, S. Nicolli, E. e M. Tortalla (a cura di), Cantagalli, Siena, 2009, pg. 129-151

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1 Cfr. E.W. TRUEMAN DICKEN, Teresa of Jesus and John of the Cross, in: C. JONES – G. WAINWRIGHT – E. YARNOLD (a cura di), The Study of Spirituality, Oxford University Press, New York NY 1986, 363-376.

2 Cfr. J. SUDBRACK, Mistica, Piemme, Casale Monferrato 1992, 70.

3 Cfr. V. MELCHIORRE, Percorsi filosofici, in: S. SPINSANTI (a cura di), Maschio e Femmina: dall’uguaglianza alla reciprocità, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, 45-62.

4 Cfr. A. COZZI, Come dire oggi la Trinità, in «Tredimensioni» 3 (2006), 232-244.

5 Mt16,15. Cfr. Mt 16,12-20; Mc 8,27-30; Lc 9,18-21.

6 Cfr. S. LECLAIRE, On tue un enfant, Seuil, Paris 1975.

7 Percorso con un notevole rilievo teologico, così come la vicenda di Gesù rappresentata nei Vangeli mostra con evidenza. Dalla sua nascita «in relazione», umanamente partecipata da Maria, alla vicenda della morte, nella quale egli vive l’esperienza dell’abbandono, oltre che dei suoi anche del Padre, cioè della sua relazione ultima e costitutiva.

8Gen 3.

9 X. THÉVENOT, Omosessualità maschile e morale cristiana, LDC, Leumann 1991,10.

10 M. SELZ, Il pudore, Einaudi, Torino 2005.

11Ibid., 10.

12 La cristallizzazione di un processo regressivo conduce a sviluppare una serie di comportamenti che in tutto o in parte sono associabili a una situazione psicopatologica.

13 Cfr. P.A. DEWALD, The Supportive and Active Psychotherapies, Jason Aronson, Northvale NJ 1994, 273-292.

14 Cfr. BENEDETTO XVI, Deus Caritas Est, n. 7.

15 C.S. LEWIS, Diario di un dolore, Adelphi, Milano12 2002, 13-14.

16 Cfr. Mt 6,7.

17 Cfr. S. SPINSANTI, Essere uomo, essere donna alla svolta del decennio, in: Id cura di), Maschio e femmina: dall’uguaglianza alla reciprocità, op. cit., 5-22.

18 Cfr. Eb 5,8.

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