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Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII, due papi rivoluzionari

Portraits Jean XXIII et Jean Paul II – it

© Public Domain

Aleteia - pubblicato il 29/04/14

Due “attivisti della dignità umana” che avevano molte cose in comune

di Rafael Navarro-Valls

Nel corso della sua lunga storia, la Chiesa ha proclamato diecimila santi e beati. Mai due papi insieme. Mai canonizzati da un papa regnante alla presenza di un papa emerito. Se la prima enciclica dell’attuale papa Francesco è stata, come ha detto lui stesso, “scritta a quattro mani” (le sue e quelle di Benedetto XVI), l’imponente cerimonia di questa domenica ha avuto come protagonisti quattro papi, a “otto mani”, ed è stata in tre dimensioni, con una flotta di 36 satelliti che trasmettevano nel mondo intero. Si calcola che vi abbiano assistito duemila milioni di persone e sia stata ascoltata via radio in 40 lingue.

I riflettori di tutto il pianeta puntavano su Piazza San Pietro, inquadrando due papi rivoluzionari, anche se molto diversi. Giovanni XXIII era originario di un piccolo paese italiano, Sotto il Monte, Giovanni Paolo II era nato a Wadowice (Polonia) – il primo papa straniero dopo 455 anni. Giovanni XXIII è stato eletto in un conclave di 50 cardinali, il papa polacco in uno di 111. La visita di papa Giovanni a Loreto e ad Assisi, alla vigilia del Concilio Vaticano II, è durata meno di un giorno e ha suscitato l’entusiasmo dei fedeli; dal 1870 era il primo papa a uscire dal Lazio. Papa Wojtyła si è recato in 145 Paesi, con oltre 150 viaggi in Italia. Giovanni XXIII ha occupato il soglio pontificio per 5 anni, Giovanni Paolo II per quasi 27. Papa Roncalli è stato eletto a 77 anni, Karol Wojtyła a 58.

Coincidenze tra i due pontefici

Ciò che li univa questa domenica, tuttavia, non erano le loro differenze, ma i punti in comune. Entrambi avevano difetti, ma hanno lottato contro di essi; entrambi hanno aumentato con uno sforzo tenace le proprie virtù e hanno cercato di indirizzare verso Dio le azioni di pontificati pieni di successi. Quello che papa Francesco ha proclamato questa domenica è che questi due papi “rivoluzionari” nella storia della Chiesa lo sono stati più per la loro santità che per la loro attività. Più per il loro amore per Dio e per il prossimo che per quello che hanno realizzato. Il che non vuol dire che questo non sia stato importante. Sono “rivoluzionari” anche perché lo è stata la loro attività.

Parliamo di punti in comune. Uno interessante è il fatto che entrambi sono stati proposti per la canonizzazione “subito”. Alla morte di Giovanni Paolo II c’è stato un ampio movimento per proclamarlo “santo subito”. Prima dell’inizio del conclave, molti cardinali hanno firmato una richiesta in questo senso. Eletto Benedetto XVI, sono stati gli stessi cardinali a suggerirglielo. Papa Ratzinger ha preferito non saltare il processo di beatificazione, ma lo ha avviato prima che passassero i cinque anni previsti dalla morte. La sua consegna agli incaricati è stata “Fate presto ma fate bene”.

Meno noto è il fatto che dopo la morte di Giovanni XXIII nel Concilio Vaticano iniziò ad affermarsi un movimento consistente per canonizzarlo per acclamazione. Si trattava di chiedere a Paolo VI che concedesse all’assemblea conciliare il potere di proclamare – naturalmente in unione con il papa – Giovanni XXIII come modello di santità al tempo nuovo e antico, da presentarsi a tutti come presenza operativa di Dio nel mondo. Paolo VI – come avrebbe fatto anni dopo Benedetto XVI – ha preferito aprire immediatamente il processo di beatificazione, insieme a quello di Pio XII, ma seguendo l’iter abituale.

Preghiera e serenità

Entrambi erano veri esempi di serenità davanti alle difficoltà. Giovanni XXIII raccontava con umorismo che dopo l’elezione al pontificato aveva difficoltà a dormire per le troppe preoccupazioni. Una notte, riferiva, il suo angelo custode gli aveva detto: “Angelo, credo che non dovresti prenderti tanto sul serio”. Da allora, Roncalli confessava di dormire “come un sasso”.

Proverbiale era la fiducia di Giovanni Paolo II nella Provvidenza. Dopo il grave attentato del 1981, ad esempio, rifiutò il giubbotto antiproiettile consigliatogli dai servizi di sicurezza. È la stessa serenità che porta oggi papa Francesco a fare a meno delle macchine blindate.

Entrambi avevano nella preghiera la chiave della loro efficacia. In un’occasione, Giovanni Paolo II stava pregando. Entrò in camera sua un alto dignitario, reclamando la sua attenzione su un tema “molto grave”. Wojtyła lo guardò e gli rispose che se la questione era così grave la cosa migliore era che continuasse a pregare e avrebbero parlato più tardi. Forse per questo, un giorno chiese a un gruppo di collaboratori che lo accompagnavano in una visita a un santuario mariano: ““Cosa è più importante per il Papa nella sua vita, nel suo lavoro?”. Gli suggerirono: “Forse l’unità dei cristiani, la pace nel Medio Oriente, la distruzione della cortina di ferro…?”. Replicò sorridendo: “Per il papa, la cosa più importante è la preghiera”.

Dal canto suo, Giovanni XXIII nel suo “Il Giornale dell’Anima” fondava il suo impegno ad essere santo su quattro punti: lo spirito di unione con Gesù, il raccoglimento del cuore, la recita del santo rosario e la vigilanza sulle proprie azioni. Il suo segretario particolare, oggi cardinal Capovilla, insiste sul fatto che la chiave per comprendere Giovanni XXIII è il fatto che fosse “un uomo di profonda preghiera”.

Amore per il popolo ebraico

Un altro tra i tanti punti di coincidenza è la vicinanza affettiva di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II al popolo ebraico. Due esempi saranno sufficienti. Roncalli, quando era nunzio in Turchia, passava due volte a settimana consistenti somme di denaro a un editore ebreo perché gli ebrei rifugiati in Turchia potessero comprare del cibo. La sua convocazione del Vaticano II rese possibile la dichiarazione Nostra aetate, che condannò duramente l’antisemitismo e affermò che il patrimonio comune tra cattolici ed ebrei deve portare a “comprensione reciproca” e “rispetto”.

Edith Zirer, sposata e madre di due figli, che vive a Haifa, ha voluto essere vicino a papa Giovanni Paolo II nel suo viaggio in Terra Santa per ringraziarlo personalmente di ciò che era avvenuto 59 anni prima. Era una fredda mattina del febbraio 1945. La piccola ebrea (12 anni), l’unico membro della sua famiglia sopravvissuto al massacro nazista, sfinita e prossima alla morte, venne aiutata da un sacerdote di 25 anni alto, forte, che senza chiederle nulla le diede semplicemente un raggio di speranza. “Mentre mi portava in braccio – io non riuscivo neanche a camminare –, mi rivelò con voce tranquilla la morte dei suoi genitori e del fratello e la necessità di non lasciarsi sopraffare dal dolore e di combattere per vivere. Mi lasciò al treno”. Edith è sopravvissuta e si è rifatta una vita in Israele. Il giovane sacerdote era Karol Wojtyła.

La rivoluzione monoteista

Ho detto prima, però, che entrambi i pontefici sono stati “rivoluzionari”. Dei rivoluzionari che pensavano che siamo frutto di una rivoluzione: la rivoluzione monoteista, seguita dal fatto dell’irruzione di Dio nella storia umana attraverso Gesù di Nazareth. Per entrambi, allontanare la paura dai cuori implicava la riscoperta dei veri valori morali e spirituali perduti. Per questo Giovanni XXIII ha convocato il Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II ha diffuso il suo ricco contenuto in mezzo mondo e papa Francesco sta lottando per la sua reale applicazione a tutti i livelli. Bisogna guardare con profondità agli eventi per capire quelle che Zweig definiva “le raffiche rivolu
zionarie”. In questo caso, diceva Giovanni XXIII, si trattava di rinnovare la Chiesa per renderla più santa e quindi più adatta ad annunciare il Vangelo ai contemporanei, di rilevare il buono della cultura contemporanea stabilendo un dialogo con il mondo moderno.

Attivisti della dignità umana

Papa Wojtyła lo ha capito molto bene. Joaquin Navarro-Valls, suo ex portavoce, lo ha definito un “attivista della dignità umana”. Dove la vedeva aggredita lo denunciava. Per lui i grandi scandali del XX secolo sono stati i genocidi e i crimini contro l’umanità; l’apartheid, la tortura e la fame; le aggressioni contro le libertà o i diritti economico-sociali; gli attacchi contro la famiglia e il diritto alla vita, o la discriminazione contro le minoranze. Lamentava inoltre la “corresponsabilità di tanti cristiani in gravi forme di ingiustizia ed emarginazione sociale”. Cose simili le aveva dette in precedenza Giovanni XXIII, le ha ripetute Benedetto XVI e ora le ribadisce con accenti nuovi anche Francesco.

Si sentiva che i quattro papi “presenti” questa domenica in Piazza San Pietro erano uniti in questi obiettivi. E in tutti e quattro, sia nelle due immagini sorridenti sugli arazzi che sul volto di chi celebrava la cerimonia e su quello del papa emerito, era palpabile la gioia. La gioia di chi sa di essere – come ha detto Francesco durante la celebrazione – amico di Dio, difensore della famiglia e del Concilio Vaticano II e protagonista dello sviluppo dei popoli e della pace.

Rafael Navarro-Valls è docente e autore di “De Barack Obama al Papa Francisco” (EIUNSA, 2014). Articolo pubblicato sul quotidiano spagnolo “El Mundo” e riprodotto dietro autorizzazione dell’autore.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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