Lo stesso Congar tiene però a segnalare che la sua riformulazione della problematica non conduce assolutamente ad una soluzione vaga e indistinta sul fronte della configurazione dei ministeri, in ragione del fatto che essi non hanno la medesima densità, e dunque non si situano tutti sullo stesso piano. Al riguardo, egli propone di distinguere tre diversi livelli della diaconia ecclesiale:
- Anzitutto, la comunità cristiana riconosce al suo interno la presenza di doni e servizi che, sorgendo spontaneamente, assumono i tratti della contingenza e della occasionalità. Questi servizi testimoniano ad intra e ad extra la vitalità della diaconia della Chiesa, in un’ottica carismatica che invita a superare ogni rigida codificazione.
- Esistono invece altri servizi e uffici che godono maggiore stabilità, proprio in quanto esprimono un nesso intrinseco con i doveri, le necessità e le attività ordinarie della vita ecclesiale. La presenza di catechisti, di lettori o guide in ambito liturgico, di operatori nella pastorale della carità costituisce di fatto un’espressione di questo secondo livello, distinto dal precedente per una certa stabilità ed organicità, nonché per (un opportuno) riconoscimento pubblico.
- In terzo luogo, entra in gioco il livello sacramentale che, mediante l’imposizione delle mani, consacra e abilita al ministero di vescovo, presbitero o diacono. Si tratta di un potere singolarissimo conferito dallo Spirito Santo ad alcuni fedeli, chiamati a rappresentare, rendendolo presente, Gesù Cristo, Signore e capo del suo corpo, che è la Chiesa. E, d’altra parte, l’esercizio del ministero ordinato, in vista della missione e dell’edificazione ecclesiale, deve puntare alla scoperta, alla promozione e al coordinamento dei carismi che lo Spirito non fa mancare alla sua Chiesa.
Questi rapidi accenni consentono di avvertire l’interesse della pista suggerita da Congar, ma anche la sua relativa astrattezza. Il suo discorso, poiché si limita a segnalare l’esistenza di una triplice tipologia ministeriale, ma non si spinge a prendere in considerazione specifiche esperienze di responsabilità nel ministero, resta ultimamente aperto e indeterminato. Solo a partire da un’osservazione e da una reinterpretazione di figure concrete di ministero in actu exercito sarà possibile tratteggiare modelli di orientamento per la nuova stagione ecclesiale, e profilare i contorni di nuovi esercizi e uffici pastorali. Sulla base dello schema congariano, comunque, la presente riflessione si colloca sul secondo livello, ove viene prefigurato lo spazio per ministeri istituiti (dunque, “non ordinati”), promossi dalla Chiesa mediante una precisa destinazione nel servizio e un pubblico riconoscimento.
Inevitabilmente, la dizione “ministeri istituiti” chiama in causa il motu proprio di papa Paolo VI Ministeria Quaedam (1972), che si prefisse lo scopo di produrre una revisione della disciplina ecclesiastica relativa ai cosiddetti “ordini minori”, e specificamente il suddiaconato. L’intenzione primaria del documento è di riconoscere l’identità che sussiste fra clero e ministero ordinato, riservando dunque la titolarità dell’ordine sacro alla triade episcopato, presbiterato, diaconato. Alla luce di questa precisazione terminologica e dottrinale, il motu proprio riconosce lo spazio per ministeri ecclesiali assegnati a laici; più precisamente,optando per l’introduzione di due uffici tradizionali – il lettorato e l’accolitato – senza peraltro escludere nel futuro l’opportunità della promozione di ulteriori figure ministeriali.
Al generale gradimento per Ministeria Quaedam, non è seguito – come invece ci si poteva attendere – un investimento di preziose risorse atte e identificare e sperimentare nuove figure ministeriali, come sommessamente suggeriva lo stesso motu proprio. Ciò non è avvenuto, probabilmente, a motivo di una duplice e differente istanza: perché se, da un lato, le Chiese nazionali non si sono prodigate nell’individuare e sostenere nuove forme di ministeri istituiti, da riconoscersi in seguito sul piano canonico; dall’altro lato, intorno agli anni ’70 la teologia pastorale ha enfaticamente lanciato l’appello per una Chiesa “tutta ministeriale”. L’assenza di una sperimentazione promossa dai vertici ecclesiali e contemporaneamente l’enfasi e l’indeterminatezza dell’idea di una ministerialità diffusa hanno contribuito a mantenere irrisolta e vaga l’intera materia.