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Vivere il sacerdozio battesimale

Six Million People Attended Pope Francis Vatican Events in 2013 Jeffrey Bruno – it

Jeffrey Bruno

Dimensione Speranza - pubblicato il 24/04/14

La categoria di “popolo di Dio” assume un rilievo decisivo nel quadro dell’ecclesiologia conciliare.

di Marco Vergottini

Fermo restando il carattere misterico della realtà della Chiesa – e quindi il carattere ultimamente analogico e simbolico di ogni sua riespressione teologica, come indica la ricchezza delle immagini bibliche e patristiche raccolte in Lumen gentium 5-6 -, la categoria di “popolo di Dio” assume un rilievo decisivo nel quadro dell’ecclesiologia conciliare.

Nell’ottica della presente ricerca interessa qui segnalare un duplice risvolto del primato accordato alla nozione di “popolo di Dio”: da un lato, ciò comporta il definitivo superamento del dualismo clero-laici, laddove l’appartenenza a Cristo e al suo corpo mistico mette in luce la dignità di ciascun battezzato, prima ancora di qualsiasi ulteriore specificazione; dall’altro il privilegio di quella cifra invoca un pieno recupero della dimensione storica, poiché al riconoscimento dell’iniziativa convocante di Dio deve corrispondere l’agire libero e responsabile di questo “popolo”, che dunque si autocomprende come soggetto storico concreto.

Nell’atto in cui la Chiesa si autocomprende come “popolo di Dio” acquista un rilevo decisivo il sacerdozio battesimale di ogni suo membro: “Il popolo di Dio è unico, come unico è il Signore, unica la fede e il battesimo. Comune è la dignità di tutte le membra derivante dalla loro rigenerazione in Cristo” (LG 32). Sotto questo profilo il discorso sull’identità del cristiano conosce una precedenza rispetto ad ogni ulteriore differenziazione, relativa ai diversi stati di vita e ai ministeri comunitari. Tale priorità verte su ciò che primariamente specifica la vocazione di tutti i fedeli: segnatamente, l’essere in Cristo come condizione dell’essere di Cristo. Tale ridefinizione “cristologica” del christifidelis – vale a dire, la consapevolezza che il sacramento dell’ordine o la vita consacrata non costituiscono una maggiorazione rispetto all’essere “solo cristiano” – invita anzitutto a una revisione della tradizionale dottrina sulla figura dei laici. (1)

L’impostazione di quest’ultima, com’è noto, si era fatta carico di provvedere a una promozione del laicato, proprio per reagire alla sua plurisecolare marginalità e sudditanza in ambito cristiano. Per poter raggiungere tale obiettivo, la cosiddetta “teologia del laicato” aveva provveduto ad una rigida fissazione dei ruoli e ad una netta spartizione degli ambiti e delle attività assegnati rispettivamente ai chierici e ai laici: dei primi veniva asserita la titolarità e la dedizione in campo ecclesiale, dei secondi la competenza e l’autonomia nell’ambito delle realtà secolari. Di conseguenza, il rapporto fra laici e chierici ha finito per assumere il seguente risvolto: sotto il profilo della formazione cristiana e della vita ecclesiale, i comuni fedeli avrebbero dovuto essere edotti dai pastori; mentre sul piano della vicenda secolare, i laici avrebbero potuto reclamare l’autodeterminazione nel giudizio e l’autonomia nell’agire in ambito civile e politico.

In realtà, una tale schematizzazione risulta obiettivamente insoddisfacente proprio perché finisce per ingabbiare la realtà storica e fattuale, la cui ricchezza e complessità sporge assolutamente rispetto a una tale semplificazione. E, comunque, anche da un punto di vista teorico tale lettura non appare convincente, proprio in quanto non fa tesoro di un’acquisizione fondamentale del Vaticano II: come non esiste la Chiesa in opposizione al mondo, neppure esiste una Chiesa di fronte al mondo. La Chiesa vive il suo mistero dentro la storia, così che ogni vocazione cristiana è per necessità ecclesiale e insieme storica.

In chiave di ripresa critica, allora, l’effettivo guadagno maturato dal Vaticano II sull’argomento non deve ’essere ritrovato nel cap. IV di Lumen gentium, laddove la “secolarità” è presentata come nota qualificante del fedele laico (un’impostazione che di fatto costituisce una ripresa mitigata delle tesi tradizionalmente espresse dalla “teologia del laicato”) e neppure nell’Aspostolicam Actuositatem, il decreto dell’apostolato dei laici (il cui impianto complessivo finì per beneficiare soltanto in minima parte della rinnovata prospettiva ecclesiologica). La vera novità del Vaticano II è costituita piuttosto dall’insistenza con cui i padri conciliari hanno inteso propiziare nei fedeli laici la consapevolezza di dover fuoriuscire da una condizione di effettiva minorità rispetto ai ministri ordinati e a quanti hanno abbracciato la vita religiosa (2): da un lato, infatti, col Concilio si assiste ad una reintegrazione di ogni battezzato entro il quadro di una appartenenza ecclesiastica più egualitaria e partecipata; dall’altro lato, in ogni momento e situazione del vivere ordinario – dunque sul piano delle relazioni familiari, professionali, civili e politiche – i comuni credenti sono chiamati a riscoprire la qualità spirituale dell’esperienza di fede.


Consegue allora che l’assunzione  di responsabilità richiesta ad ogni credente, in ragione della sua identità di testimone del vangelo, debba investire tanto la sfera dell’agire civile e politico, quanto lo stesso ambito della vita ecclesiale. Sotto quest’ultimo aspetto, recuperare la figura della vocazione di ciascun battezzato (christifidelis) nel suo riferimento immediato al Cristo, comporta che il discorso sui diversi ministeri e stati di vita – tradizionalmente ricondotti ai tre modelli del ministero ordinato, della vita religiosa e dello stato laicale -, sia successivo e ordinato alla prospettiva più generale che riconosce nel sacramento del battesimo il sorgere di ogni vocazione cristiana.

Coerentemente, ci si può chiedere se un’autentica ricezione della lezione conciliare – il cui nocciolo è costituito dall’insegnamento del carattere storico della rivelazione, della dimensione esperienzale del credere, del  processo di inculturazione che contraddistingue la realtà della fede cristiana e della Chiesa come popolo (storico) di Dio – non solleciti la coscienza credente a smettere i panni di quella rappresentazione essenzialistica, fissistica, intellettualistica del dato cristiano, entro cui si origina l’illusione di poter quasi isolare in vitro la “quintessenza” del fedele laico. Qualora invece si rinunci a quella lettura che pretende aprioristicamente un’armonizzazione concordistica del dettato conciliare, il discorso sull’identità del christifidelis (LG, cap. II) finirà per spiazzare e rendere vana la ricerca dello “specifico”, o – detto altrimenti – delle “indole peculiari” del laico (ricerca che ritorna, seppure attenuata da diverse sfumature e limitazioni, nel cap. IV di LG) (3).

Una ricezione intelligente e critica dell’intentio profundior del Concilio dovrà dunque procedere – per ragioni di carattere teologico e per ragioni storico – congiunturali – nella direzione di un discernimento che presti attenzione all’esercizio della fede sul piano pratico, così come essa è vissuta da parte dei comuni credenti. In questa linea, si giustifica la scelta di prestare attenzione alla condizione di quei laici cui sono stati affidati dai pastori – sul fondamento dei sacramenti del battesimo e della confermazione e di uno specifico mandato della gerarchia – ministeri, uffici e funzioni in relazione all’annuncio del vangelo e della cura pastorale (cf Christifidelis Laici, nn. 23-24).

La santità cristiana, traguardo di ogni vocazione

Parlando di vocazione universale alla santità, i padri conciliari hanno inteso sgombrare il campo dal diffuso pregiudizio che riconosceva la santità come prerogativa di uno specifico stato di vita, quello religioso-monastico. Nella nuova prospettiva delineata dal cap. V di Lumen gentium, il comando del Signore Gesù, “Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste” (Mt  5,48) viene fatto valere incondizionatamente per ogni credente.

Non esiste vocazione cristiana che possa sottrarsi alla regola generale per cui la misura della perfezione è l’amore che si è rivelato in pienezza nel sacrificio in croce del Figlio: “Il vero discepolo di cristo si caratterizza per la carità sia verso Dio che verso il prossimo” (LG 42). Al riguardo, non è affatto trascurabile che parlando dell’abbondante fruttificazione della “santità del popolo di Dio”, il Concilio, laddove riconosce la multiformità dell’esercizio della perfezione cristiana (“Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva”, LG 41), prenda in considerazione, dopo i vescovi, presbiteri, diaconi, candidati al ministero, la figura di “quei laici eletti da Dio”, i quali, sulla base di una missino ricevuta dal vescovo, attendono all’attività apostolica lavorando nel campo del Signore con molto frutto.


Se è vero che uno degli apporti originali del discorso ecclesiologico del Vaticano II punta a rientrare il discorso sulla figura del cristiano tout court, viene definitivamente accantonata la ricerca di una definizione teorica di “laico” da cui ricavare deduttivamente un unico modello di “spiritualità”. A partire dalla condizione epocale attuale e dal vissuto biografico di ciascuno, si tratta piuttosto di profilare i “contorni” dell’essere e dell’agire credente. In una prospettiva teologico-pratica, non è possibile allora pensare che l’appartenenza ecclesiale, l’agire morale e la vita nello Spirito possano autorizzare livelli qualitativi diversi di appropriazione della fede cristiana: ogni battezzato è chiamato in ogni situazione esistenziale a riferirsi assolutamente al Signore Gesù in tutto il suo essere, pensare ed agire.

In questa linea, occorre allora dissipare l’equivoco che troppo di frequente ritorna nell’opinione pubblica ecclesiastica, allorché si suppone l’esistenza di una duplice formalità della scelta credente. Si distingue così qualitativamente l’esistenza cristiana di quanti, ricevendo l’ordine sacro o abbracciando la vita religiosa, consacrano l’intera esistenza alla causa del cristianesimo rispetto all’identità più generale dei “comuni fedeli”. Nel caso delle vocazioni di speciale consacrazione, l’esistenza credente si configurerebbe come sequela/limitazione di Gesù; mentre nel secondo caso, che interessa la condizione ordinaria dei semplici battezzati, la vita cristiana si configurerebbe più modestamente come adattamento della spiritualità alla condizione di normalità dell’esistenza umana.

Un tale pregiudizio non trova alcun conforto nel Nuovo Testamento. In un’ottica autenticamente cristiana non soltanto è infondato supporre qualsivoglia opposizione fra la carità verso Dio e la benevolenza nei confronti del prossimo, ma neppure la stessa osservanza dei consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza) può essere riservata ai soli religiosi, a motivo del fatto che nessuno può ardire ad appropriarsi dei doni e dei comandamenti di Dio, escludendo altri da tale benedizione e responsabilità. L’unica spiritualità evangelica allora è quella di chi ridispone a seguire Gesù nella declinazione concreta della propria esistenza. In questo senso c’è del vero nell’affermazione che la questione dei laici – i quali si trovano in una condizione obiettiva di minorità in ordine alla consapevolezza della propria identità cristiana a causa di un regime ecclesiastico che per diversi motivi ha privilegiato altre componenti – coincide nient’altro con la questione del futuro della Chiesa: in altri termini, si tratta di scommettere sulla figura di credenti adulti capaci di mostrare la compatibilità fra il principio evangelico e la fedeltà all’attuale contesto ecclesiale e storico-civile.

La possibilità di questa figura spirituale – ma che poi è la stessa possibilità della fede in quanto tale – è legata precisamente alla formazione del cristiano, anche sotto il profilo teologico. Si tratta dunque di rendere possibile, praticabile, plausibile ciò che è doverosamente richiesto dall’Evangelo. Una tale chance deve essere reclamata e promossa non già per qualche stato di vita o per qualche élite, ma per ogni cristiano: al di là di questo, niente deve essere richiesto di più, ma niente dovrebbe essere richiesto di meno.

Pluralità di ministeri nell’unità della missione

Il “nuovo corso” conciliare, sulla scorta delle acquisizioni relative alla natura/missione della Chiesa e all’identità, del cristiano ha comportato una ri-trattazione dell’idea di ministero apostolico, propiziando al tempo stesso un processo di revisione delle forme istituzionali (ministeri, uffici, servizi) in cui storicamente si è organizzata la premura della comunità cristiana sul versante della diaconia.


Se è vero che nei testi del Vaticano II non è dato ritrovare un discorso organico e compiuto sul capitolo dei ministeri – relativamente al piano dei contenuti, del linguaggio e delle indicazioni pastorali -, nondimeno l’evento conciliare concorre a fissare gli indirizzi fondamentali in vista della ripresa teologica e pastorale dell’intera materia. In negativo, il Concilio conduce alla definitiva archiviazione dell’impostazione tradizionale che identificava la Chiesa col ministero della gerarchia, giustapposta alla condizione dei fedeli laici; questi ultimi considerati come totalità indistinta, dunque come massa dei fedeli contraddistinta da una condizione di minorità e passività. In positivo, il Vaticano II ha riscoperto la dimensione carismatica dell’intero popolo di Dio, facendo leva sulla ricchezza e la varietà dei doni che lo Spirito dispensa sui battezzati in vista dell’utilità comune: “Lo stesso Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui”(1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi varie opere o uffici, utili al rinnovamento della Chiesa e allo sviluppo della sua costruzione” (LG 12).

La valorizzazione della lezione del Vaticano II sul tema della ministerialità ecclesiale sollecita pertanto il contributo intelligente e critico di una riflessione teologica in grado di operare un fattivo recupero dell’orizzonte biblico (soffermandosi, per es., sulle categorie di sacerdozio, di pastore, di diaconia), dell’orizzonte ecclesiologico reinterpretando la suggestiva formula di Apostolicam Actuositatem 2: “C’è nella Chiesa diversità di ministero, ma unità di missione”) e dell’orizzonte pastorale (nella linea di un discernimento complessivo dello strutturarsi della Chiesa, ben oltre l’opera di un mero “aggiornamento” dei servizi ecclesiali).

Fra i tentativi di ripensamento teologico più originali e fecondi si distingue per autorevolezza e incisività quello di padre Congar, il quale ha saputo avvertire, con largo anticipo sui tempi, l’esigenza di una rinnovata trattazione in tema di ministero, ministeri e carismi, proprio in fedeltà all’ecclesiologia conciliare. In chiave programmatica il suo discorso si prefigge di salvaguardare due istanze e, in ultimo, di correlarle vicendevolmente: così, per un verso, una ripresa della questione della ministerialità nell’odierno scenario ecclesiale dovrà collocarsi entro (e non fuori) l’alveo della tradizione della Chiesa latina; mentre, per altro, una revisione complessiva della disciplina ecclesiastica e della prassi pastorale non potrà essere che l’esito di un nuovo inquadramento teologico della problematica dei ministeri, a condizione tuttavia di saper accogliere e corrispondere alle sfide e alle urgenze che l’odierna società complessa pone alla fede ecclesiale.

Nel saggio Ministères et communion ecclésiale (1971) Congar punta a mettere in luce come l’ecclesiologia conciliare abbia innescato un duplice movimento: da una parte, nella forma di un “rientramento” del discorso su Cristo e sul suo Spirito; dall’altra, nella forma di un “decentramento” a favore di una collegialità ecclesiale. L’accantonamento della rigida impostazione che presiedeva allo schema gerarchia-fedeli, a motivo del carattere originario e fondante del sacerdozio di Cristo, consente – a giudizio del domenicano francese – di approdare ad alcune decisive acquisizioni in ordine al carattere ministeriale di tutto il popolo di Dio. In primo luogo, occorre riconoscere la priorità dei valori d’esistenza cristiana rispetto ad una configurazione ministeriale che obbedisca ad una logica immediatamente giuridica e organizzativa. In secondo luogo, la precedenza accordata alla missione rispetto all’articolazione dei ministeri è in grado di recepire meglio la loro qualità funzionale e la logica di servizio che li comanda. Infine, l’uso del plurale “ministeri” e l’insistito rinvio alla prospettiva dei “carismi” favoriscono il recupero della prospettiva neotestamentaria che legge i ministeri nella comunità, come mezzi di cui Dio si serve per suscitare e riunire la sua Chiesa, al di là di una prospettiva unilateralmente giuridica, che invece legge il ministero come un potere d’ordine e un valore autonomo al di sopra e al di fuori della comunità.


Lo stesso Congar tiene però a segnalare che la sua riformulazione della problematica non conduce assolutamente ad una soluzione vaga e indistinta sul fronte della configurazione dei ministeri, in ragione del fatto che essi non hanno la medesima densità, e dunque non si situano tutti sullo stesso piano. Al riguardo, egli propone di distinguere tre diversi livelli della diaconia ecclesiale:

  1. Anzitutto, la comunità cristiana riconosce al suo interno la presenza di doni e servizi che, sorgendo spontaneamente, assumono i tratti della contingenza e della occasionalità. Questi servizi testimoniano ad intra e ad extra la vitalità della diaconia della Chiesa, in un’ottica carismatica che invita a superare ogni rigida codificazione.
  2. Esistono invece altri servizi e uffici che godono maggiore stabilità, proprio in quanto esprimono un nesso intrinseco con i doveri, le necessità e le attività ordinarie della vita ecclesiale. La presenza di catechisti, di lettori o guide in ambito liturgico, di operatori nella pastorale della carità costituisce di fatto un’espressione di questo secondo livello, distinto dal precedente per una certa stabilità ed organicità, nonché per (un opportuno) riconoscimento pubblico.
  3. In terzo luogo, entra in gioco il livello sacramentale che, mediante l’imposizione delle mani, consacra e abilita al ministero di vescovo, presbitero o diacono. Si tratta di un potere singolarissimo conferito dallo Spirito Santo ad alcuni fedeli, chiamati a rappresentare, rendendolo presente, Gesù Cristo, Signore e capo del suo corpo, che è la Chiesa. E, d’altra parte, l’esercizio del ministero ordinato, in vista della missione e dell’edificazione ecclesiale, deve puntare alla scoperta, alla promozione e al coordinamento dei carismi che lo Spirito non fa mancare alla sua Chiesa.

Questi rapidi accenni consentono di avvertire l’interesse della pista suggerita da Congar, ma anche la sua relativa astrattezza. Il suo discorso, poiché si limita a segnalare l’esistenza di una triplice tipologia ministeriale, ma non si spinge a prendere in considerazione specifiche esperienze di responsabilità nel ministero, resta ultimamente aperto e indeterminato. Solo a partire da un’osservazione e da una reinterpretazione di figure concrete di ministero in actu exercito sarà possibile tratteggiare modelli di orientamento per la nuova stagione ecclesiale, e profilare i contorni di nuovi esercizi e uffici pastorali. Sulla base dello schema congariano, comunque, la presente riflessione si colloca sul secondo livello, ove viene prefigurato lo spazio per ministeri istituiti (dunque, “non ordinati”), promossi dalla Chiesa mediante una precisa destinazione nel servizio e un pubblico riconoscimento.

Inevitabilmente, la dizione “ministeri istituiti” chiama in causa il motu proprio di papa Paolo VI Ministeria Quaedam (1972), che si prefisse lo scopo di produrre una revisione della disciplina ecclesiastica relativa ai cosiddetti “ordini minori”, e specificamente il suddiaconato. L’intenzione primaria del documento è di riconoscere l’identità che sussiste fra clero e ministero ordinato, riservando dunque la titolarità dell’ordine sacro alla triade episcopato, presbiterato, diaconato. Alla luce di questa precisazione terminologica e dottrinale, il motu proprio riconosce lo spazio per ministeri  ecclesiali assegnati  a laici; più precisamente,optando per l’introduzione di due uffici tradizionali – il lettorato e l’accolitato –  senza peraltro escludere nel futuro l’opportunità della promozione di ulteriori figure ministeriali.

Al generale gradimento per Ministeria Quaedam, non è seguito – come invece ci si poteva attendere – un investimento di preziose risorse atte e identificare e sperimentare nuove figure ministeriali, come sommessamente suggeriva lo stesso motu proprio. Ciò non è avvenuto, probabilmente, a motivo di una duplice e differente istanza: perché se, da un lato, le Chiese nazionali non si sono prodigate nell’individuare e sostenere nuove forme di ministeri istituiti, da riconoscersi in seguito sul piano canonico; dall’altro lato, intorno agli anni ’70 la teologia pastorale ha enfaticamente lanciato l’appello per una Chiesa “tutta ministeriale”. L’assenza di una sperimentazione promossa dai vertici ecclesiali e contemporaneamente l’enfasi e l’indeterminatezza dell’idea di una ministerialità diffusa hanno contribuito a mantenere irrisolta e vaga l’intera materia.


A fugare l’illusione che la valorizzazione dei laici possa essere coltivata nella linea di una ministerilizzazione indistinta, in seguito è maturata la consapevolezza che alla vocazione compete un rilievo più fondamentale e generale rispetto al ministero, alla luce del fatto che la diaconia ecclesiale nasce dalla e per la sequela, e non viceversa. Di conseguenza, se è certamente legittimo denunciare e superare il sequestro clericale di ogni funzione ministeriale, nondimeno la promozione dei fedeli laici non passa certo automaticamente attraverso una generalizzata estensione della ministerialità ad ogni credente.

Una coraggiosa presa in consegna di tale problematica suggerisce, per un verso, un uso più calibrato dell’espressione ministero/ministri (4) e, per altro verso, il superamento di una generica promozione di buone iniziative occasionali per pervenire ad un a strutturazione di servizi dotati di una certa stabilità e di un preciso riconoscimento ecclesiastico. D’altra parte, il ripensamento complessivo della ministerialità ecclesiale comporta ragionevolmente di fuoriuscire da un’impostazione che restringa lo spettro di valutazione alla sola sfera liturgica. Si avverte inoltre l’esigenza che lo sforzo di delineare nuove figure ministeriali si liberi dal presupposto di affidarsi a criteri universali e fissati a priori, per aprirsi ad un tentativo di investigazione dei servizi in atto e ad una loro riarticolazione tipologica,  che come tale non può sottrarsi a misurarsi con la contingenza e la provvisorietà del vissuto ecclesiale concreto. Un’ultima e decisiva acquisizione del discorso che assegna un carattere strategico alla valorizzazione del concorso dei laici alla ministerialità pastorale punta a riconoscere che quest’ultima avrà un profilo tanto meno clericale quanto più sarà partecipata. Oltretutto, come è stato acutamente osservato, “l’originalità stessa della presidenza della comunità cristiana da parte del ministero ordinato rimane più al riparo da equivoci se è inserita in una diffusa assunzione di corresponsabilità, che non se si taglia in uno splendido isolamento. (5)

* Docente di teologia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.

1) Con una formulazione lapidaria è stato felicemente osservato che “il laico cristiano non è né qualcosa di più né qualcosa di diverso del cristiano” (G. COLOMBO, La Teologia dei laicato”: bilancio di una vicenda storica in AA. VV., i laici nella Chiesa, Elle Di Ci, Leumann-Torino, p. 24).il volume raccoglie gli atti del Convegno annuale della Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale (Milano, febbraio 1986). Per una puntualizzazione critica sulla recezione  di questa proposta nel’ambito teologico italiano, sia consentito rinviare a: M. VERGOTTINI, Le teologia e i “laici”. Una ipotesi interpretativa e la sua recezione nella letteratura, “Teologia” 18 (193) 166-18618 (193) 166-186.

2) Sintomatica al riguardo la proposta avanzata durante i lavori conciliari dal Card. Suenens, favorevole a coordinare nella costituzione dogmatica sulla Chiesa i due momenti della trattazione sui fedeli laici: a) il primo che considera in generale il popolo di Dio; b) il secondo che riflette in specie sulla figura dei laici. Ciò avrebbe comportato, inevitabilmente, che quanto era stato detto in  precedenza del popolo di Dio, doveva essere riferito indistintamente a tutti i credenti chierici e laici.

3) Cf  M. VERGOTTINI, La riflessione teologica sui laici. Da lumen Gentium a Christifideles Laici, in AA. VV., A trent’anni dal Concilio Memoria e profezia,a cura di C. GHIDELLI, Roma 1995, pp. 131-159.

4) A livello magistrale si può ricordare Cristifideles Laici, 232, nonché il discorso di Giovanni Paolo II a conclusione del Simposio, Collaborazione dei fedeli laici al ministero presbiterale, (22 aprile 1994), “L’Osservatore Romano”, 23 aprile 1994, nn. 3-4.


5) T. CITRINI, La questione teologica dei ministeri, in AA. VV, I laici nella Chiesa, cit. p. 72.  Dello stesso autore, si vede anche: La ministerialità nella Chiesa oggi. Temi di dibattito e di riflessione, “Rivista liturgica” 73 (1986), pp. 365-381.

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