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Il perdono oltre l’emozione

The mother of Abdolah Hosseinzadeh slaps Balal

© ARASH KHAMOOSHI / ISNA / AFP

<span>IRAN, Now Shahr : The mother (R) of Abdolah Hosseinzadeh, who was murdered in 2007, slaps Balal who killed her son during the execution ceremony in the northern city of Nowshahr on April 15, 2014 just before she removed the noose around his neck with the help of her husband, sparing the life of her son&#039;s convicted murderer.</span>

Vinonuovo.it - pubblicato il 24/04/14

Sul gesto della madre iraniana che toglie il cappio dal collo dell'assassino di suo figlio. E sulla necessità di spezzare davvero la logica del male

di Paola Springhetti

C’è molto da ammirare, ma anche molto da rifiutare, nel gesto quasi eroico della madre iraniana che, vestita di nero, allenta il cappio che sta per uccidere l’assassinio del proprio figlio, e poi ne abbraccia la madre. La donna e il marito hanno deciso di perdonare, e il loro perdono ha fermato la mano del boia: questo prevede la legge in Iran. Da quello che è stato possibile leggere sui giornali, il gesto non era scontato, ed è arrivato dopo un lungo periodo di incertezza e riflessione, in cui la forza e la pietà hanno alla fine vinto.

Il gesto di quella madre e di quel padre suscita ammirazione e commozione, ma ci sono elementi, in questa storia, che mettono a disagio e costringono a riflettere sulla giustizia e sul perdono.
Per cominciare, la pena di morte è una condanna ingiusta sempre, a prescindere dal grado di efferatezza dei reati e di responsabilità del colpevole: togliere la vita ad un essere umano ha il senso della vendetta e non quello della punizione che redime, non risarcisce le vittime, non serve come deterrente. Detto questo, è semplicemente mostruoso lasciare alle vittime il diritto/dovere di decidere della vita del colpevole: una scelta terribile, lacerante, che rischia di consegnare per sempre la vittima al rimorso o comunque all’amarezza indelebile che il sapore della vendetta lascia dietro di sé. Inoltre, la scelta di condannare a morte ha una sola alternativa: il perdono. Ma il perdono, per essere veramente tale, dovrebbe essere frutto di un percorso complesso e soprattutto libero.

Che cosa significa perdonare? Significa scegliere la clemenza, il dialogo, la pace, per interrompere il circolo vizioso del male. Violenza chiama violenza, male chiama male, vendetta chiama vendetta. Il perdono rompe questa logica e permette di innescare un processo di riconciliazione. In altri termini, «il perdono si presenta innanzitutto come tentativo di ricostruzione di una relazione interpersonale, interrotta a seguito di una qualsiasi offesa» (Antonio Mastantuono, La profezia straniera, San Paolo 2002, p. 13).

È evidente, dunque, che il perdono non si improvvisa. È frutto di un percorso faticoso e doloroso, che spesso è difficile percorrere da soli. Si tratta in qualche modo di convertirsi, affrontando la prima fase che, secondo Mastantuono, tutti viviamo quando ci sentiamo vittime di un atto ingiusto: quella della sofferenza personale profonda. Segue la fase dell’odio, nella quale «non si riesce a dimenticare il male subìto né a desiderare la felicità del proprio nemico». Solo dopo aver affrontato questi passaggi si arriva alla terza fase, che è quella della guarigione, nella quale «riceviamo gli "occhi magici" che ci consentono di vedere chi ci ha feriti sotto una nuova luce; la memoria è guarita, invertiamo il corso del dolore e siamo nuovamente liberi. Possiamo ora riconciliarci…» (pp. 22-23)

È un processo che richiede rispetto, disponibilità e ovviamente tempo, perché non si tratta di dimenticare, ma di rielaborare. Ma è proprio grazie a questo processo che il perdono acquista così tanta importanza, oltre che sul piano personale, su quello religioso e anche sociale, perché non si riduce ad un gesto formale e di immagine, ma incide nella realtà rompendo il cerchio del male. Questo, in fondo, è il senso degli inviti di Giovanni Paolo II a "purificare la memoria" in vista del giubileo del 2000, e anche il senso del suo ripetuto chiedere perdono per gli errori della Chiesa.
Il perdono, è evidente, non esclude la giustizia, che deve verificare il rispetto delle leggi, perché i cittadini possano sentirsi protetti dalle regole ed eventualmente risarciti quando viene loro fatto un danno. Compito dei cittadini, attraverso i loro rappresentanti, è far sì che queste leggi siano giuste, cioé rispettino e garantiscano i diritti di tutti. Ma la giustizia ha anche dei limiti: ad esempio, può emettere sentenze, ma non può risolvere i conflitti profondi che dividono le persone e lacerano la società. Il perdono, invece, sì. Come ha scritto Gherardo Colombo, «il perdono non può stare senza la giustizia, anche se la trascende e la invera nel suo significato più profondo, trasferendola dal piano della semplice perequazione dei diritti, sul quale abitualmente (e doverosamente) si muove, a quello soggettivo e relazionale dell’incontro tra persone».

Quindi il problema del perdono – inteso come percorso di riconciliazione – non riguarda solo la vittima, ma anche la comunità cui la vittima – e a volte anche il colpevole – appartiene.
Non sono tempi facili, per questi discorsi. Ogni giorno c’è qualcuno che chiede pene più forti nei confronti di chi commette questa o quella trasgressione, grave o leggera che sia. E più un reato ci scandalizza, più chiediamo pene dure, pensando con ciò di avere fatto giustizia. Questa logica porta alla pena di morte, perché si fonda su una concezione retributiva della giustizia: se la trasgressione "pesa tot", anche la pena deve pesare tot. Sostanzialmente, è una versione un po’ più moderna e meno letterale della legge del taglione, quella in base alla quale, in Iran, una madre cui è stato ucciso un figlio, può decidere che venga ucciso il figlio di un’altra madre.

La logica del perdono costringe a pensare la giustizia in altri termini. Spezzare la logica del male e innescare quella del bene. Risarcire – per quanto possibile – la vittima e avviare percorsi di recupero della persona.  Quindi costruire processi che permettano «una riparazione realizzata nel dialogo tra comunità e trasgressore, che si risarciscono vicendevolmente: il secondo indennizzando i danni materiali, svolgendo prestazioni di pubblica utilità e dimostrando la propria volontà di cambiamento; la prima demolendo "ogni senso di rifiuto e proscrizione, generato dalla mentalità retributiva, nei confronti del condannato" attraverso la "sostituzione dell’ideologia del "capro espiatorio" mediante la disponibilità all’"accompagnamento […]" e la garanzia dell’aiuto indispensabile per la reintegrazione nella società.» (Gherardo Colombo, "Il perdono responsabile", Ponte alle Grazie 2011, p. 42).

È questo che può fare il perdono: inserire il senso della gratuità nel nostro modo di concepire la giustizia e spingerci, tutti, verso un senso più alto della giustizia.

Qui l’originale

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