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Qual è il valore della vita?

Pregnant african woman

© Evgeny Atamanenko/SHUTTERSTOCK

Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 23/04/14

Tre casi di bambini non nati o lasciati morire raccontano qualcosa della nostra società

Vivere non è facile, lo sanno tutti, ma per qualcuno è difficile, se non impossibile, anche solo provarci. Nascere, insomma, può non essere scontato se la futura mamma ha altri progetti o se chi dovrebbe assicurare le possibilità previste dalla legge ha rinunciato ad esercitarle. Quando poi si aggiungono i protocolli ospedalieri a mettere una linea temporale di settimane o ore tra la vita e la morte, l’impresa di affacciarsi alla vita diventa davvero disperata. Tre storie, tre casi, che interrogano e fanno pensare alla cultura delle nostre società.

Josie Cunningham ha 23 anni e sogna di diventare una modella. La sua aspirazione potrebbe realizzarsi attraverso la partecipazione all’edizione inglese de Il Grande Fratello per la quale è stata selezionata. C’è un solo problema: è incinta di 4 mesi e mezzo e la gravidanza bloccherebbe l’ingaggio. Così decide di abortire dandone l’annuncio – una mossa pubblicitaria? – sul Daily Mirror: “L’aborto favorirà la mia carriera. Il prossimo anno non voglio avere un bambino, ma stare alla guida di una bella macchina e comprare una grande casa. Nulla si metterà sulla mia strada” (Avvenire 22 aprile). Le dichiarazioni dell’aspirante star già madre di due bambini di 6 e 3 anni, riferisce il quotidiano, “hanno scosso i cittadini inglesi. Il Mirror ha lanciato un sondaggio: il 93% dei lettori si dicono pronti a boicottare la trasmissione se la pretendente dovesse ottenere una parte”.

La mamma di Tom Godwin, invece, il suo bambino lo aspettava e lo voleva. Qui il problema è stato che il piccolo è nato prematuro, di sole 22 settimane: ha lottato 45 minuti per vivere ma lasciato senza assistenza, ha finito per non farcela. La signora ha creduto che i medici non fossero intervenuti a causa delle condizioni disperate del bambino. La verità l’ha saputa sei settimane dopo quando, in una riunione con lo staff dell’ospedale, le hanno spiegato che secondo i protocolli inglesi a medici e ginecologi di terapia intensiva neonatale è suggerito di “non rianimare i bambini di 22 settimane o più piccoli e lasciarli morire fornendogli solo le cosiddette «cure compassionevoli»” (Tempi 23 aprile). Dopo quattro anni di battaglie legali, la mamma di Tom ha ricevuto le scuse del nosocomio per aver omesso di spiegarle la politica neonatale dell’ospedale così da consentirle di andare a partorire altrove e altre negligenze simili. Il regolamento, però, non è stato cambiato.

Secondo un’indagine della sanità inglese riportata da Tempi (22 aprile), il 54 per cento degli aborti che vengono effettuati in Gran Bretagna è illegale. Infatti i dati diffusi in seguito a un’interrogazione parlamentare affermano che nel 2012, in 98 mila casi, il medico non ha incontrato neanche una volta la donna che voleva interrompere la gravidanza, contrariamente agli obblighi di legge. I moduli per l’aborto venivano firmati in bianco dai medici e poi riempiti con i nomi delle interessate che non avevano contatti con i medici. Contro i 67 medici responsabili dell’illegalità non verrà presa nessuna misura sanzionatoria dal General Medical Council (Gmc), l’equivalente dell’ordine dei medici inglese. “Questo prova in modo evidente – ha commentato il parlamentare del partito laburista Jim Dobbin – che viviamo in una cultura dove l’aborto è on demand. Sessantasette dottori approvavano l’aborto tranquillamente senza sapere niente delle donne che lo richiedevano. Ancora peggio, gli avvocati e i medici del Gmc hanno deciso di tenere questi crimini per loro [e di non informare la polizia]. Questo disonora il Gmc e fa dell’Abortion Act una presa in giro” (Tempi 22 aprile).

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