Mons. Renato Boccardo e Renzo Agasso firmano un volume che ci aiuta a cogliere l’umanità di Wojtyla per capirne la santità
“È stato un tale privilegio servire Giovanni Paolo II, una tale grazia essergli vicino, che sento il dovere di parlarne, di farne parte agli altri”. Questo è l’incipit del racconto di mons. Renato Boccardo, attualmente arcivescovo di Spoleto-Norcia, ma nei giorni del pontificato di Karol Wojtyla suo collaboratore in Vaticano, soprattutto organizzatore dei suoi ultimi viaggi. Il libro uscito in questi giorni,Il «mio» Giovanni Paolo II (Paoline, 2014), curato da Renzo Agasso, ricostruisce i tratti dell’uomo Karol Wojtyla, non prescindendo, piuttosto alzando lo sguardo oltre la potente ed influente immagine che i media hanno disegnato prima e dopo la sua morte. In questo libro impariamo a conoscere il pontefice polacco in ciò che precedeva e seguiva le sue apparizioni in pubblico o i suoi incontri con i capi di Stato. Riusciamo a guardare, in queste righe, dentro i suoi sorrisi, i suoi sguardi severi e nel fondo delle sue lacrime di commozione. Aleteia ha incontrato Renzo Agasso, che ci ha offerto qualche anticipazione.
Chi è il Giovanni Paolo II che raccontate?
Agasso: In questo libro abbiamo usato alcune parole chiave per identificare questo pontificato; ognuna corrisponde ad un capitolo. Tre di queste soprattutto emergono nel ritratto di Boccardo. La prima è mistico: questo papa che animava le folle era in realtà un uomo che cercava continuamente il contatto con Dio con la preghiera, col silenzio, in un passaggio in cappella in Vaticano tra un incontro e l’altro, col fermarsi in elicottero, in macchina o in aereo, a dire il rosario prima di scendere per incontrare i capi di Stato e le folle. ‘Mistico’ è un vocabolo che Boccardo usa più volte: lui l’ha visto sempre pregare, nei momenti più impensabili e nei luoghi più diversi, sotto le calure infernali oppure al freddo e al gelo. La seconda parola è coerenza: Boccardo dice che ha il papa ha avuto tanto ascolto, da parte soprattutto dei giovani, perché si mostrava come un uomo che viveva quello che diceva, che non ha mai rivisto la sua speranza nel mondo giovanile, che è sempre stato esigente con i giovani e li ha sempre spronati a fare bene e meglio. Con assoluta coerenza poi viveva la sua stessa vita, nel massacrarsi nei viaggi, nel resistere fino alla fine nella debolezza della malattia: una coerenza fisica e spirituale che i giovani hanno apprezzato e che li ha convinti. L’altra parola chiave che Boccardo usa è umanità: Giovanni Paolo II è stato un papa che in mezzo a tutte le vicende storiche che ha vissuto, ai personaggi storici straordinari che ha incontrato, aveva sempre la capacità di riconoscere la persona, e di avere un’attenzione per questa, individuale e concreta, non falsa, non costruita, ma reale e autentica.
La sfida era quella di mostrare l’uomo oltre l’immagine mediatica che se ne ha?
Agasso: Vedo che stanno emergendo oggi, anche in molti altri autori, questi aspetti. Si riscopre che al di là dello spettacolo del Giovanni Paolo II ‘superstar’ che abbiamo visto e vissuto – che ha avuto un ruolo comunque perché ha avvicinato il papa a milioni di individui, cosa mai vista prima e mai pensata sino ad allora – c’era un uomo, profondamente radicato in alcune cose, nella preghiera, nell’attenzione alle persone, nella preparazione meticolosa della messa. Per lui, dice Boccardo, andare nei paesi lontani non era andare a incontrare capi di Stato, ma era andare a dire messa. Per questo c’era in lui una lunga attenzione ai gesti, ai momenti. Celebrare l’eucarestia in mezzo al popolo di Dio, questo era lo scopo per cui viaggiava, che veniva prima di tutto il resto.
Tra gli ultimi capitoli ci sono quelli dedicati a due termini chiave: “umanità” e “fragilità”. Perché?