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Chi è l’uomo della Sindone?

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Mirko Testa - Aleteia - pubblicato il 20/04/14

Siamo in grado di ricostruire un identikit della persona che venne avvolta nella Sindone?

La tradizione della Chiesa e i risultati della ricerca scientifica affermano che con altissima probabilità il corpo senza vita impresso sul lino di Torino sia quello di Gesù. Infatti, il tessuto rivela un uomo adulto, sulla quarantina, robusto, alto circa un metro e ottanta, che mostra i segni della flagellazione e della crocefissione, cui fu tributata una sepoltura onorifica.

1) L’immagine che emerge dalla Sindone è quella di un cadavere martirizzato, con il capo e la nuca feriti da un insieme di oggetti appuntiti, le ginocchia e il setto nasale escoriati e cosparsi di terra come in seguito a una caduta, un’ampia ferita al costato apertasi dopo il decesso, i polsi e i piedi trafitti da chiodi, e le scapole segnate probabilmente da una pesante trave.

L’immagine rimasta impressa sul telo sindonico ci parla di un corpo che manifesta tutti i sintomi del rigor mortis, il particolare irrigidimento muscolare che segue la morte: il capo è forzatamente flesso sul petto senza che vi siano segni di un sostegno al di sotto della nuca, gli arti superiori e inferiori hanno una posizione del tutto innaturale. In particolare, la foratura in corrispondenza dei polsi e dei piedi, la posizione contratta del torace e dei muscoli delle cosce, le lacerazioni lasciate da un grosso supporto rigido sulla schiena mostrano che l’uomo fu giustiziato con la crocifissione. Prima di essere flagellato venne denudato, e infatti su quasi tutta la superficie corporea, tranne che sul volto, sono state contate 120 lesioni affiancate due a due provocate quasi sicuramente da un flagello composto da un manico al quale erano state applicate due funicelle o lunghe striscioline di cuoio terminanti con due piccoli pesi di piombo. In questo caso si deve pensare che fossero stati vibrati 60 colpi. In tutto le tracce di ferite visibili contate sono invece 372. La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che fosse alto sul metro e ottanta. I segni dell’invecchiamento che si manifestano sul volto dell’uomo sindonico inducono ad affermare che potesse avere circa quarant’anni. Il setto nasale presenta una frattura scomposta, la parte destra del viso è completamente tumefatta. Il sangue rinvenuto sul telo, come dimostrato per primo dal medico chirurgo Pierluigi Baima Bollone, è umano di gruppo AB – quello statisticamente più raro, in Europa corrisponde al 5% della popolazione, mentre negli ebrei è molto più elevata la percentuale – e contiene una grande quantità di bilirubina, un fatto tipico in chi ha subito una morte violenta. Nella zona del cranio compare l’impronta di 13 ferite inferte da oggetti appuntiti tutti dello stesso tipo, disposti nella parte superiore della testa a formare una specie di elmo o casco. Le emorragie dipendono alcune da ferite che l’uomo subì da vivo, altre invece gli vennero inflitte quando era già morto. L’esame del flusso sanguigno indica che l’uomo fu avvolto nel telo in un tempo preciso, non oltre due ore e mezzo dopo la sua morte. Nella zona delle scapole le ferite appaiono ulteriormente ingrandite e abrase, come se avesse trasportato un grosso oggetto rigido, un dato che fa pensare al trasporto del patibulum, la trave di legno pesante oltre cinquanta chilogrammi, che veniva portata dal condannato fino al luogo dell’esecuzione e che avrebbe formato il braccio orizzontale della croce da issare sopra un palo infisso a terra, detto stipes.

2) Alcune anomalie – il trasporto del patibulum, l’utilizzo di chiodi per mani e piedi, la corona di spine, il fatto che non fosse finito in una fosse comune – oltre a rendere questa crocifissione molto particolare, fanno pensare che sia stata una esecuzione esemplare particolarmente dura.

Le lesioni appaiono numericamente molto superiori a quelle prevedibili per un condannato che avrebbe dovuto subire successivamente un’esecuzione capitale. La flagellazione denota un duro accanimento, una severa punizione. Nell’ordinamento romano il numero dei colpi di flagello era limitato dal divieto di uccidere il condannato, mentre presso i giudei il numero dei colpi è fissato a quaranta, un numero sacro, come si legge in Deuteronomio 25,3. Per questo quando usavano una frusta con tre estremità, i giudei vibravano soltanto tredici frustate per non esporsi al pericolo di oltrepassare questo numero limite. Inoltre, l’immagine impressa testimonia che il corpo subì due forme di violenza non riconducibili all’uso romano: la presenza delle ferite puntiformi sul cranio e presso la nuca, oltre alla ferita da arma da punta e taglio inferta fra la quinta e la sesta costola. Un’altra anomalia è che al suppliziato non furono spezzate le ossa delle gambe, cosa che gli ebrei usavano fare per esigenze rituali: sempre il Deuteronomio proibiva di lasciare i cadaveri sulla croce oltre il tramonto, e la pratica di fratturare le gambe (crurifragium) affrettava la morte e quindi permetteva di tirarli giù prima della sera. L’impronta di sangue più vistosa fra tutte corrisponde a quella riportata sulla parte destra del torace, provocata da un’ampia ferita da punta e taglio, possibilmente una lancia. Il sangue risulta diviso nelle sue due componenti, ovvero la parte sierosa e quella corpuscolata (i globuli rossi): la divisione denominata “dissierazione” si compie solo dopo la morte, perciò la ferita che ha provocato lo squarcio sul torace è stata inferta quando l’uomo era già cadavere. L’impronta si è prodotta prima che si sciogliesse il rigor mortis, quindi prima che cominciasse il naturale processo di decomposizione dopo 36-48 ore.

3) Dal tipo di tessuto di lino e da come venne trattata la salma, possiamo dedurre che l’uomo avesse ricevuto una sepoltura senza la purificazione rituale prevista dalla legge giudaica ma comunque molto onorevole: i tessuti di quella fattura, nell’ebraismo antico, erano infatti riservati agli usi del Tempio di Gerusalemme e agli uomini consacrati a Dio.

Al contrario di quanto previsto dagli usi funerari degli ebrei menzionati nel Talmud, il cadavere staccato dalla croce è stato adagiato su un lungo lenzuolo nudo, non lavato e non rasato. Secondo quanto scrive Emanuela Marinelli in “La Sindone. Testimone di una speranza” (Edizioni San Paolo, 2010): “Quattro categorie di persone non ricevevano la purificazione rituale secondo la legge giudaica: vittime di una morte violenta; giustiziati per crimini di natura religiosa; proscritti dalla comunità giudaica; uccisi da non Giudei”. Tuttavia, l’uomo della Sindone, in accordo con la cultura ebraica venne sepolto in un candido lino e per di più di estremo valore. La Sindone è stata infatti tessuta con una tecnica detta “a spina di pesce”, utilizzata sicuramente già prima dell’era cristiana ma di cui ci rimangono rari esemplari, soprattutto in lino. Il filato presenta, invece, la complessa e molto rara torcitura a Z, nel quale le fibre vengono condizionate a torcersi nel verso contrario rispetto a quello che prenderebbero spontaneamente nel seccarsi al sole. Il sudario è stato sicuramente prodotto in ambiente ebraico poiché dalle analisi non sono emerse tracce di fibre di origine animale, in ottemperanza alla legge mosaica (Dt 22,11) che prescriveva di tenere separata la lana dal lino. Semmai sono state rilevate tracce di fibre di cotone identificate come Gossypium herbaceum, diffuso in Medio Oriente ai tempi di Cristo. Questo tipo di telo richiama un tessuto assai pregiato e ritualmente puro con cui, negli usi liturgici dell’ebraismo antico, venivano confezionati i velari del Tempio di Gerusalemme e che veniva usato dal sommo sacerdote – il presidente del Sinedrio, il consiglio supremo che reggeva la comunità ebraica – per avvolgersi dopo aver compiuto per cinque volte il bagno rituale obbligatorio nel giorno in cui celebrava il rito dell’Espiazione (lo Yom Kippur), la festa più sacra. E’ strano quindi che il corpo di un condannato a un supplizio infamante da cui erano esenti i cittadini romani e che era riservato a traditori, disertori e spesso agli schiavi, sia stato avvolto in un sudario estremamente prezioso per poi esservi rimosso poco tempo dopo, invece di essere gettato direttamente in una fossa comune o finire in pasto alle belve.

4) Il luogo in cui l’uomo della Sindone fu sepolto o in cui il lenzuolo rimase esposto più a lungo può essere ricavato da due elementi: i pollini rimasti imbrigliati nella sua trama e appartenenti a varie specie vegetali esistenti solo in Medio Oriente o per lo più concentrate in un’area che circonda la zona di Gerusalemme; il terriccio rinvenuto e contenente aragonite, un minerale abbastanza raro però diffuso nei dintorni di Gerusalemme.

Le analisi sul tessuto sindonico hanno permesso di accertare la presenza sia di pollini europei (in quantità più esigua) che di pollini di piante che vivono nella regione di Costantinopoli, nella steppa anatolica e sulla sponde del Mar Morto. Studiando i diversi spostamenti del telo sindonico ricavabili sin dalle testimonianze cristiane più antiche, gli esperti di botanica hanno trovato riscontri al tragitto di questo sudario che parte da Gerusalemme, passando per la Palestina, Edessa, Costantinopoli, Budapest, Lirey, Chambery, fino ad arrivare a Torino nel 1578. Lo studioso Max Frei, dopo aver raccolto campioni di piante durante la stagione della fioritura nelle regioni geografiche in cui la Sindone può aver soggiornato, aveva individuato i pollini di 58 piante diverse sul misterioso lenzuolo, nessuna specie anemofila, cioè trasportata dal vento: 45 di queste crescono in un unico territorio al mondo, l’area cioè circostante Gerusalemme. In seguito, Uri Baruch esaminando i preparati di Frei confermò la presenza di Gundelia tourneforti – che fiorisce nel periodo primaverile tra Gerusalemme e il Mar Morto e alla quale appartiene oltre il 50% dei pollini rinvenuti sulla Sindone – di Zygophillum dumosum e di Cistus creticus. piante che vivono e fioriscono insieme in un’unica area al mondo: quella tra la città di Hebron e Gerusalemme. In seguito l’individuazione di altre quattro specie oltre a quelle tre spinse il docente di botanica Avinoam Danin ad affermare che la sepoltura doveva aver avuto luogo in marzo-aprile. Un indizio per capire che questo cadavere venne deposto con onori assolutamente non permessi per i condannati a morte, che secondo la norma dovevano restare per dodici mesi nello spazio infamante di un sepolcreto pubblico prima che i loro resti potessero essere resi ai parenti. Inoltre, in alcuni campioni prelevati nella zona dei piedi c’era del terriccio: l’uomo aveva quindi camminato scalzo per un certo lasso di tempo. Le stesse tracce furono rinvenute in corrispondenza della punta del naso e del ginocchio sinistro, che risulta vistosamente tumefatto, come se l’uomo poi avvolto nel telo fosse caduto a terra battendo violentemente anche il viso senza la possibilità di ripararsi con le mani (come per l’impedimento del patibulum). L’esperto di cristallografia Joseph A. Kohlbeck e il fisico Ricardo Levi-Setti hanno notato che quel terriccio contiene aragonite, un minerale abbastanza raro però molto diffuso nel terreno di Gerusalemme. Inoltre nel telo è stata rintracciata la presenza del natron, un composto usato in Palestina ed Egitto per la conservazione delle salme.

5) Attraverso la ricostruzione dell’impronta di due monete e di alcune scritte rinvenute sul lenzuolo della Sindone, si può ipotizzare che l’uomo venne sepolto attorno al 29-30 d.C.

In seguito a delle analisi iniziate nel 1951, padre F. L. Filas affermò di aver individuato sulla palpebra destra del volto sindonico impronte estremamente simili a quelle esistenti sulla faccia di una moneta, un “dilepton lituus”, che presenta sul diritto il simbolo del “lituo” – cioè di una specie di bastone da pastore, presente su tutte le monete di Pilato coniate dopo il 29 d.C. – circondato dalla scritta greca TIBEPIONƳ KAIƩAPOƩ: una moneta che risale quindi ai tempi di Tiberio. Pierluigi Baima Bollone e Nello Balossino attraverso l’elaborazione dell’immagine bidimensionale dell’arcata sopraccigliare sinistra hanno invece evidenziato la presenza di segni riconducibili a un “lepton simpulum”, una moneta bronzea che oltre alla riproduzione sul verso di una coppa rituale con manico (“simpulo”), recava anche la scritta TIBEPIONƳ KAIƩAPOƩ LIS, ovvero risalente all’anno XVI dell’imperatore Tiberio, che corrisponde all’anno 29-30 d.C. La presenza di monetine, riflesso di un’usanza pagana entrata nella consuetudine ebraica, è stata confermata dal ritrovamento di monetine nelle cavità orbitali di teschi rinvenuti a Gerico, e risalenti all’epoca di Cristo e a En Boqeq, nel deserto di Giuda, dell’inizio del II sec. d.C. Sono stati poi osservati anche dei segni grafici sul lenzuolo che i diversi paleografi hanno tentato di interpretare in vario modo. Le immagini più definite riguardano la scritta INNƩCE, che potrebbe corrispondere alla forma abbreviata latina di in necem ibis, “andrai a morte”, che era la sentenza di condanna. Altri studiosi hanno invece ravvisato la presenza anche di scritte in caratteri ebraici. Secondo Barbara Frale, le scritte trasferitesi per contatto da cartigli identificativi del nome del condannato e dell’autorizzazione legale a eseguire la pena, andrebbero tradotte così: “Gesù Nazareno. Trovato [che sobillava il popolo, cfr. Lc 23,2]. Messo a morte nell’anno 16 di Tiberio. Sia deposto (oppure: veniva rimosso) all’ora nona. [Sia reso in] Adar [sheni]. Chi esegue gli obblighi è […]”. Adar sheni è il mese nel quale i parenti, un anno dopo, avrebbero potuto recuperare i resti del defunto. Barbara Frale nel volume “La Sindone di Gesù Nazzareno” (Il Mulino, 2009) riferisce che a Gerusalemme l’unico modo per identificare a distanza di un anno i cadaveri dei condannati a morte che per un anno era stati nel sepolcreto pubblico prima di essere riconsegnati ai parenti erano questi certificati di sepoltura.

CONCLUSIONE:
Anche se la Chiesa non si è mai pronunciata ufficialmente e in maniera definitiva sull’identità dell’uomo raffigurato nella Sindone ma continua a incoraggiare la ricerca scientifica sul lino di Torino, tutte le indagini condotte sinora convergono su una risposta: il corpo misteriosamente impresso può essere con altissima probabilità solo quello del Cristo deposto dalla croce. Tutto sembra far restringere il cerchio delle ricerche attorno alla Palestina del I sec. Inoltre, vi è una sostanziale concordanza tra il racconto dei Vangeli sulla Passione di Cristo e le informazioni che riusciamo a ricavare dalla Sindone, tanto più grande in quanto alcune particolarità risultano divergere dalla crocifissione romana del I sec.:

•    l’efferata flagellazione, smisurata prima di una crocifissione (sono stati ipotizzati 60 colpi di frusta) → Gesù venne flagellato e percosso sul volto e sul corpo [Mc 15,15-19; Mt 27,26-30; Lc 23,16; Gv 19,1-3];
•    la coronazione di spine (non abbiamo documenti che riportino una tale usanza per le crocifissioni né presso i romani né presso altri popoli) → Gesù venne rivestito dai soldati romani della corona di spine e della porpora per essere schernito come re dei Giudei [Mc 15,17; Mt 27,29; Gv 19,2];
•    il trasporto del patibulum, il palo orizzontale della croce (nelle crocifissioni, soprattutto
in quelle di massa, si preferivano alberi o croci occasionali)
→ Gesù trasportò la propria croce fino al Golgota (Mc 15,20-21; Mt 27,31-32; Lc 23,26; Gv 19,17)
•    la sospensione alla croce con i chiodi invece delle più comuni corde (una particolarità che sembra fosse riservata a crocifissioni ufficiali) → Nel Vangelo di Giovanni, nell’episodio dell’apostolo Tommaso, si dice che Gesù portava i segni della crocifissione sulle mani, mentre Luca fa riferimento sia alle mani che ai piedi [Gv 20,25 e 20,27; Lc 24,39-40];
•    l’assenza di crurifragium, la frattura delle gambe inflitta per accelerare la morte → A Gesù non vennero spezzate le gambe come ai due ladroni perché morì in maniera insolitamente rapida, tanto che Pilato se ne stupì [Gv 19,32-33; Mc 15,44];
•    la ferita al costato inferta dopo la morte (un fatto raro) → Gesù venne colpito con una lancia al costato da un centurione per accertare che fosse morto. Dalla ferita fuoriuscì acqua mista a sangue [Gv 19,34];
•    la mancata unzione, rasatura e vestizione del cadavere com’era previsto dagli usi dell’epoca e la sepoltura affrettata → Gesù venne avvolto nudo in un lenzuolo e posto in un sepolcro subito dopo la deposizione dalla croce, perché stava sopraggiungendo la sera ed era la vigilia della Pasqua ebraica che coincideva quell’anno con lo shabbat, il giorno di riposo della settimana in cui è vietato qualsiasi lavoro manuale;
•    l’avvolgimento del cadavere in un lenzuolo pregiato e la deposizione in una tomba propria invece della fine in una fossa comune → Giuseppe di Arimatea, un ricco membro del Sinedrio, acquistò il lino in cui venne avvolto Gesù e lo seppellì in un sepolcro da lui stesso fatto scavare nella roccia [Mc 15, 42-46; Mt 27, 57-60; Lc 23, 50-54; Gv 19, 38-41];
•    il breve tempo di permanenza nel lenzuolo → Gesù morì all’età di 37 anni venerdì 7 aprile dell’anno 30 d.C., intorno alle 15:00, dopo sole tre ore di agonia, il suo corpo rimase nella tomba dalle 18:00 circa di quello stesso giorno fino alle 6:00 circa di domenica 9 aprile, quando Maria di Magdala insieme ad altre donne trovò il sepolcro vuoto [Mc 16,1-8; Mt 28,1-10; Lc 24,1-10; Gv 20,1-10).

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