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La fretta del «santo subito»

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©CATHOLICPRESSPHOTO

Roberto Beretta - Vinonuovo.it - pubblicato il 14/04/14

Come mai solo nel caso della canonizzazione di Giovanni Paolo II si dà tanta importanza al «sensus Ecclesiae» dei fedeli?

Da assessore all’anagrafe, una cosa l’ho imparata: per intitolare una via a una persona, la legge prescrive che siano passati almeno 10 anni dal decesso. Papa Wojtyla è morto da appena 9 anni eppure è già santo: è dunque più prudente lo Stato della prudentissima Chiesa? Solo in teoria, perché l’Italia è il Paese delle eccezioni e dal Nord al Sud abbondano già le strade intitolate a Giovanni Paolo II…

So quindi di fare il guastafeste proprio nel mezzo della celebrazione del grande Giovanni Paolo II; però ho letto le dichiarazioni rese dal cardinale Carlo Maria Martini al processo di beatificazione del papa polacco e divenute pubbliche pochi giorni fa («Non vorrei sottolineare più di tanto la necessità della sua canonizzazione, poiché mi pare che basti la testimonianza storica della sua dedizione seria alla Chiesa e al servizio delle anime») e allora mi faccio coraggio per dire la mia, come sempre più dal punto di vista del metodo che del merito.

Non mi piace che si faccia santo un Papa, anzi meglio: non mi piace che si facciano santi tutti i Papi del Novecento (eccetto alcune «pecore nere»: Pio XI, ad esempio, forse perché voleva fare un’enciclica contro il nazismo), quasi per coprirli col parafulmine di un’aureola dorata dal giudizio critico della storia, ancora troppo fresca per essere libera e obiettiva. Non trovo corretto che figure tanto pubbliche, ufficiali e alla fine «politiche», come sono stati indubbiamente i Pontefici soprattutto nell’ultimo secolo, vengano elevate agli altari prima che si possano conoscere tutti gli elementi della loro complessa opera, prima che vengano valutati gli errori inevitabilmente commessi nel loro comportamento temporale.
Dopo tutta la papolatria cattolica che hanno dovuto subìre in vita, questi poveri «servi dei servi di Dio» anche in morte devono essere additati ad esempio; e a chi, poi? Ai loro successori? O ai cristiani «normali», lontani le mille miglia dalla loro esperienza, così come lo sarebbero da quella di Obama alla Casa Bianca? No, non mi piace proprio questo modo di fare; magari sbaglio, ma mi pare il perpetuarsi del clericalismo e delle sue adulazioni, l’auto-celebrazione di una «casta», la promozione di una religiosità baroccamente legata al potere.

Nel caso di Giovanni Paolo II, poi, la diffidenza è amplificata dalla riduzione dei termini di sicurezza prima della proclamazione: Wojtyla è stato assai più tempo sul soglio di Pietro di quello che gli è bastato per diventare santo… Non nego che lo possa essere davvero (ho detto che non intendo entrare nel merito): ma se lo è oggi, lo sarebbe stato pure dopodomani o tra vent’anni, no? Non si poteva aspettare? In uno come me, tanta fretta mette sospetto più che ammirazione. Perché non sono più sicuro che poi si potrà scavare con la medesima libertà nella biografia del Papa ormai santo, magari col rischio di riesumare qualche magagna.

Ma – soprattutto – non mi pare un buon esempio, di fronte a una società dell’immagine che esalta e beatifica i vip, se la Chiesa segue la medesima strada d’incoronare con l’aureola anzitutto i suoi «famosi»: i Papi appunto; i fondatori di potenti e danarosi movimenti, da Escrivà a Giussani; i taumaturghi dai molti eclatanti prodigi… Costoro dovrebbero semmai essere gli ultimi ad essere promossi. Come, come? Dite che la santità è sempre stata collegata al culto del popolo, al «sensus Ecclesiae» dei fedeli, e che quindi è logico se la Chiesa segue in ciò l’acclamazione dei credenti? Già, questa è la tesi classica. Se però è così tassativa, mi piacerebbe venisse usata anche tutte le altre volte che i cristiani laici esprimono un parere.

Qui l’originale

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